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Full Metal Jacket

1987

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Dopo Orizzonti di Gloria e Il Dottor Stranamore, Stanley Kubrick ancora una volta getta il suo acuminato sguardo nelle spire della guerra per evidenziarne gli elementi più grotteschi, più stranianti, e con Full Metal Jacket compie un’immersione che trascende la mera denuncia sociale per toccare vette di un nichilismo quasi ontologico.

In Orizzonti di Gloria la critica feroce della macchina bellica era correlata alla carneficina insensata imposta dall’alto, una denuncia della follia strategica e della cieca obbedienza. Nel Dottor Stranamore veniva messo in ridicolo la teoria della deterrenza e la corsa agli armamenti, un’esplorazione distorta e satirica delle psicosi atomiche che affliggevano la Guerra Fredda. In Full Metal Jacket, invece, l’analisi si fa più intima e brutale: è la dimensione ontologica dell’essere umano in tutta la sua sterminata complessità a subire gli effetti devastanti del conflitto, una corrosione dell'anima che non risparmia nessuno, e la condanna appare totale, senza eccezioni. La guerra non è più un contesto esterno di orrori, ma una forza plasmatrice che riscrive la psiche, distruggendo l'identità preesistente.

Full Metal Jacket è un’opera rigorosamente divisa in due parti, una struttura quasi brechtiana che enfatizza la scissione e la trasformazione. Nella prima assistiamo all’arrivo delle reclute in un campo di addestramento per marines a Parris Island, un limbo infernale dove dovranno sostenere una durissima selezione prima di essere mandate al fronte. Questa sezione, per la sua claustrofobica intensità e per la sua quasi teatrale messa in scena delle dinamiche di potere, si erge a paradigma di ogni forma di indottrinamento e disumanizzazione. Kubrick, con la sua inconfondibile meticolosità, ricrea un ambiente che è al contempo iperreale e simbolico, un vero e proprio laboratorio per la forgiatura di soldati. Ogni inquadratura è calibrata per sottolineare l'annullamento dell'individuo, la riduzione a semplice componente di una macchina da guerra, un "guscio di proiettile" come suggerisce il titolo stesso, che non è solo un riferimento all'armatura protettiva, ma alla fredda oggettivazione di un'esistenza.

Nella seconda parte seguiamo quelle stesse reclute nel teatro di battaglia in Vietnam, un paesaggio urbano devastato dalla guerra a Hue, ricreato con un'attenzione maniacale ai dettagli nei Docklands di Londra, dove Kubrick pretese la demolizione e ricostruzione di interi quartieri per ottenere la giusta desolazione. È un lungo viaggio in cui perderanno innocenza e umanità, un'odissea distruttiva che si dipana tra la banalità del male e l'orrore più puro. La narrazione espone lucidamente la scansione temporale di questo mutamento, il progressivo sfaldamento delle barriere psicologiche, facendo balenare in controluce la ferinità umana latente in ognuno dei personaggi coinvolti. Non c'è eroismo epico, ma solo un’angosciante progressione verso l’alienazione. Se in Apocalypse Now (1979) di Coppola l’orrore è un viaggio onirico e allucinatorio nel cuore dell’oscurità morale, e in Platoon (1986) di Stone la guerra è un inferno morale in cui la distinzione tra bene e male si dissolve, Full Metal Jacket si distingue per una sua fredda, quasi clinica, osservazione del processo di trasformazione, evitando giudizi espliciti per lasciare che l'orrore parli da sé.

Kubrick usa la caratterizzazione ridondante e volutamente unidimensionale di ogni personaggio per sottolinearne la deriva psicologica, una sorta di caricatura iperbolica che funziona da archetipo. L’istruttore Hartman (interpretato magistralmente da R. Lee Ermey, ex sergente istruttore la cui performance fu in gran parte improvvisata, convincendo Kubrick a licenziare l'attore inizialmente scelto e a lasciargli ampissima libertà) è il prototipo del duro inflessibile, il demiurgo di un processo di deumanizzazione che si esprime attraverso un linguaggio scurrile ma quasi poetico nella sua ossessiva ripetitività, volto a spazzare via ogni traccia di individualità e sostituirla con l'identità collettiva del marine. Joker è lo scanzonato universitario sempre pronto a gettare ironia su ogni cosa, il narratore con la sua duplice identità ("Born to Kill" sull'elmetto e spilla della pace) che incarna la "duality of man", il conflitto tra l'intelletto e la brutalità necessaria per sopravvivere. Palla di Lardo è il debole, il simbolo più tragico di chi si lascia devastare dagli eventi, la fragile mente che cede sotto il peso della prevaricazione e della violenza, la cui discesa nella follia è l’esito inevitabile di un sistema che non ammette deviazioni. La sua trasformazione, da figura goffa e mansueta a carnefice omicida, è il cuore nero del film, la dimostrazione più lampante di come l'addestramento militare possa disintegrare un'anima.

Scene memorabili di questo film sono entrate nel database mnemonico di ogni appassionato di cinema, veri e propri totem dell'immaginario collettivo: il ghigno satanico di Palla di Lardo quando incrocia il fascio di luce della torcia elettrica di Joker, il suo sguardo perduto nella schizofrenia di chi ha lasciato ogni cosa alle spalle, un’icona del terrore puro e della follia indotta. Oppure, la marcia dei soldati in mezzo alla devastazione più totale, un paesaggio lunare di macerie e desolazione, sulle note dissonanti e beffarde della marcetta di Topolino, che cantano in coro con beffarda rassegnazione. Questa scena è un capolavoro di dissonanza cognitiva, un momento di surrealismo agghiacciante che sintetizza l’assurdità della guerra e la perdita totale di innocenza, quasi un parallelo perverso con le marce trionfali dei film bellici più edulcorati. Il sorriso beffardo di Joker alla fine, mentre attraversa le fiamme di una città devastata, è l'epilogo di un'iniziazione alla violenza che ha annientato ogni residuo di umanità, lasciando solo la sopravvivenza nuda e cruda.

Un lungo, straziante urlo contro ogni guerra quello che Kubrick affida alle immagini di questo film, un angosciante riflesso di uomini svuotati di ogni connotazione umana, alienati da ogni essenza di umanità, ridotti a vuote macchine per combattere in una guerra assurda e remota. Full Metal Jacket non è solo un film sulla guerra del Vietnam, ma una meditazione universale sulla condizione umana di fronte alla violenza istituzionalizzata, un'opera che, con la sua implacabile lucidità e il suo stile distaccato, ci costringe a confrontarci con la parte più oscura della nostra natura, quella che siamo disposti a sacrificare sull'altare del conflitto. È un monito amaro e senza speranza, un testamento visivo che riecheggia la capacità kubrickiana di scavare nelle profondità dell'anima, rivelando il mostro che si annida, dormiente o risvegliato, in ognuno di noi.

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