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Fuori orario

1985

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La normalità è una fortezza con mura di cartapesta. Basta una folata di vento imprevista – una banconota da venti dollari che vola via dal finestrino di un taxi, per esempio – per vederla accartocciarsi e rivelare il caos primordiale che maschera. Paul Hackett, professione word processor (una definizione d’impiego che già odora di obsolescenza e disumanizzazione anni ’80), è il custode inconsapevole di una di queste fortezze. Il suo mondo è la prevedibilità di Midtown Manhattan, un reticolo di logica e routine. Ma una sera, sedotto dalla promessa di un incontro con una ragazza misteriosa di nome Marcy, commette l'errore fatale: varca il Rubicone di Canal Street ed entra a SoHo. Dopo la mezzanotte, SoHo cessa di essere un quartiere e diventa uno stato della mente, un labirinto kafkiano progettato da un Escher sotto anfetamine.

Il viaggio di Paul Hackett in "Fuori orario" non è una semplice disavventura urbana; è una discesa in un girone infernale la cui architettura è l'assurdo. Martin Scorsese, reduce dal colossale e frustrante naufragio del suo primo tentativo di portare sullo schermo "L'ultima tentazione di Cristo", riversa in questo film "minore" tutta la sua nevrosi, la sua frustrazione e un'energia creativa che, non potendo deflagrare in un'epopea biblica, implode in una commedia nera tesa come una corda di violino. Il risultato è una delle opere più pure, concentrate e formalmente perfette del suo canone. È Scorsese che dirige come se dovesse disinnescare una bomba, con la montatrice Thelma Schoonmaker che taglia ogni scena con la precisione di un cardiochirurgo febbricitante.

Il parallelismo più immediato, quasi didascalico, è con Franz Kafka. Paul è un Josef K. dell'era yuppie, colpevole di un crimine che non conosce – forse quello di desiderare, di uscire dalla sua griglia prestabilita – e condannato a un processo senza tribunale, le cui prove sono una serie di coincidenze malevole e personaggi squilibrati. Ogni tentativo di ristabilire l'ordine, di compiere un'azione logica (prendere la metropolitana, chiamare un taxi, chiedere aiuto), viene sistematicamente frustrato da un universo che ha sospeso le proprie leggi fisiche e morali. Ma se Kafka orchestrava una parabola sull'ineluttabilità della burocrazia e della colpa esistenziale, Scorsese mette in scena un incubo più viscerale, quasi slapstick. È il terrore che fa ridere, una risata strozzata dal panico.

Si potrebbe leggere "Fuori orario" anche come una perversa Odissea moderna. Paul è un Ulisse senza astuzia il cui unico, disperato obiettivo è tornare a Itaca (il suo anonimo appartamento uptown). SoHo è il suo Mar Mediterraneo costellato di isole insidiose, e le donne che incontra sono le sue sirene, le sue Circi, le sue Calipsi. C'è Marcy (Rosanna Arquette), ninfa nevrotica le cui storie surreali su stupri e ustioni la rendono tanto attraente quanto repellente; c'è Kiki (Linda Fiorentino), scultrice dominatrix che pratica un'arte sadomaso e tratta Paul come materiale grezzo; c'è Julie (Teri Garr), cameriera svampita e intrappolata in un loop comportamentale da sitcom anni '50; e c'è Gail (Catherine O'Hara), autista di un furgoncino di gelati che guida una folla inferocita alla caccia del presunto "ladro". Ognuna di loro rappresenta una forma di seduzione che si tramuta in trappola, un porto che si rivela un gorgo. In questo senso, il film è una profonda, quasi freudiana, esplorazione dell'ansia di castrazione maschile. Paul viene progressivamente privato di ogni simbolo di potere e virilità: il suo denaro, la sua identità (viene scambiato per un ladro), la sua mobilità, e infine la sua stessa soggettività, fino a diventare letteralmente un oggetto d'arte.

La sceneggiatura di Joseph Minion, scritta come tesi per la scuola di cinema della Columbia University, è un congegno a orologeria di perfezione diabolica. Ogni elemento apparentemente casuale introdotto nella prima mezz'ora – le sculture di gesso, le chiavi del portone, la cicatrice di Marcy, il mohawk di un punk al Club Berlin – ritorna più tardi come un pezzo del puzzle impazzito, un'arma puntata contro il nostro protagonista. È una struttura a domino dove ogni tessera che cade scatena una catastrofe più grande e più assurda della precedente. La macchina da presa di Michael Ballhaus, fluida e nervosa, pedina Paul come un predatore, intrappolandolo in inquadrature claustrofobiche e seguendolo in carrellate frenetiche che amplificano il suo stato di panico perenne. La colonna sonora, che alterna le partiture ansiogene di Howard Shore all'ironico contrappunto dell'"Aria sulla quarta corda" di Bach, crea un cortocircuito emotivo che è la cifra stilistica del film.

Contestualizzare "Fuori orario" è fondamentale per comprenderne la genialità. Siamo a metà degli anni '80, l'apice dell'era reaganiana. La figura dello yuppie, con la sua fiducia nel capitale e nell'ordine sociale, era il nuovo eroe americano. Scorsese prende questo archetipo e lo getta nel calderone bohémien e underground di SoHo, un mondo pre-gentrificazione che agli occhi di un conformista come Paul appare come un pianeta alieno, popolato da artisti squattrinati, punk nichilisti e criminali da quattro soldi. Il film diventa così anche una satira sociale ferocissima: lo scontro tra due Americhe, quella patinata e rampante di Wall Street e quella notturna, caotica e creativa che vive ai suoi margini. Paul non viene punito perché è una cattiva persona, ma perché è un turista esistenziale, un intruso che non capisce le regole del gioco e la cui unica moneta di scambio – il denaro – diventa improvvisamente inutile.

L'apice di questa odissea dell'assurdo è la trasformazione finale di Paul. Braccato da una folla inferocita che incarna l'irrazionalità collettiva (un tema caro a Fritz Lang), trova rifugio nella cantina di un'altra scultrice, June, l'unica figura vagamente materna e protettiva del film. Per salvarlo, lo ricopre di gesso, trasformandolo in una scultura urlante che ricorda "L'urlo" di Munch. È l'annichilimento totale del sé, la pietrificazione letterale della sua angoscia. Ma il contrappasso cosmico non è ancora finito. I veri ladri rubano la "statua" e, durante la fuga, la perdono dal furgone. In un ultimo, beffardo giro di vite del destino, Paul si frantuma sul selciato proprio davanti al suo ufficio, all'alba di un nuovo giorno lavorativo. Si rialza, coperto di polvere di gesso, si scrolla di dosso i resti del suo bozzolo e, come un automa, entra nell'edificio per iniziare un'altra giornata.

Non è un lieto fine. È un loop, un eterno ritorno all'uguale degno di Nietzsche. L'incubo non ha insegnato nulla a Paul, non l'ha reso più saggio o più forte. L'ha semplicemente masticato e risputato nel punto esatto da cui era partito. Il caos non è stato sconfitto, è stato solo temporaneamente arginato dalla luce del sole e dalla routine del lavoro. La fortezza della normalità si è ricostruita, fragile come prima, in attesa della prossima folata di vento. In questo, "Fuori orario" trascende la sua epoca e diventa una parabola senza tempo sulla precarietà della nostra realtà costruita, un promemoria brillante e terrificante che basta un piccolo, insignificante errore di calcolo per farci precipitare fuori orario, in quel territorio oscuro dove la logica dorme e i mostri vengono a giocare. Un capolavoro minore solo nelle dimensioni, ma immenso nella sua densità e perfezione.

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