Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Garage Olimpo

1999

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La topografia dell'orrore ha le sue regole, la sua architettura ineluttabile. Esiste una geometria dell'abiezione che il cinema, quando smette di essere mero intrattenimento e si fa sismografo dell'anima, sa mappare con una precisione che gela il sangue. "Garage Olimpo" di Marco Bechis non è un film su una dittatura; è un trattato di architettura infernale, un saggio cinematografico su come uno spazio fisico possa essere scarnificato della sua funzione originaria per diventare un puro concentrato di negazione: negazione dell'identità, del tempo, della luce, dell'umanità. Il garage del titolo non è una semplice location, è il protagonista amorale della vicenda, un non-luogo orwelliano che inghiotte e digerisce esistenze nel cuore pulsante di una Buenos Aires indifferente, la cui vita scorre al di là dei muri come un memento sonoro di un mondo irraggiungibile.

Bechis, che ha vissuto sulla propria pelle l'esperienza della detenzione e della tortura in Argentina prima di essere espulso, non adotta la grammatica del cinema di denuncia convenzionale. Rinuncia al campo lungo, alla visione d'insieme, alla facile condanna manichea. Al contrario, la sua macchina da presa opera una scelta radicale, quasi bressoniana nel suo rigore: aderisce al punto di vista, o meglio, al punto di non-vista della sua protagonista, María. L'uso ossessivo e programmatico della benda sugli occhi dei prigionieri diventa il diaframma attraverso cui il film ci costringe a esperire la realtà. Siamo ciechi come María. Il mondo si riduce a un palcoscenico sensoriale mutilato, dove i suoni diventano iper-reali, quasi tattili: il rumore dei passi sulle scale, il cigolio di una porta, il volume assordante di una radio che copre le urla, le voci distorte dei carcerieri che diventano presenze spettrali. È un'operazione cinematografica di una potenza devastante, che trasforma lo spettatore da osservatore passivo a co-prigioniero, disorientato in un labirinto acustico. L'orrore, qui, non è quasi mai mostrato nella sua esplicita brutalità, ma è costantemente suggerito, amplificato dal fuoricampo, evocato da un contrappunto sonoro che accosta la banalità di una canzonetta pop alla disperazione di un corpo martoriato.

In questo inferno burocratico e quotidiano, dove i torturatori timbrano il cartellino e si preoccupano della spesa, si consuma il dramma centrale del film: la relazione tra María (una straordinaria Antonella Costa) e il suo carceriere, Félix (Carlos Echevarría). Bechis è abbastanza coraggioso e intellettualmente onesto da schivare la trappola della Sindrome di Stoccolma nella sua accezione più romanzata e psicologicamente pigra. Il loro non è un legame che nasce da un perverso affetto, ma una simbiosi tossica forgiata nel crogiolo del potere assoluto e della totale dipendenza. Félix, che prima dell'arresto corteggiava timidamente María, non è un mostro da grand guignol; è la personificazione di quella "banalità del male" che Hannah Arendt seppe individuare con lucidità sconcertante. È un "buen muchacho", un ragazzo della porta accanto che esegue i suoi ordini con una diligenza impiegatizia, capace di passare dalla tortura a un gesto di quasi-tenerezza con una schizofrenia che è il vero marchio della disumanizzazione.

La loro dinamica evoca, in una chiave brutalmente secolarizzata e priva di qualsiasi aura mitologica, il rapporto tra Ade e Persefone. Come il dio degli inferi, Félix strappa María dal mondo dei vivi (la luce del sole, l'affetto della madre, l'impegno politico) e la trascina nel suo regno sotterraneo, il garage. E come Persefone, María è costretta a negoziare la propria sopravvivenza in un ecosistema di cui non conosce le regole, legata al suo rapitore da un filo invisibile di necessità e terrore. Ma qui non c'è Demetra a reclamare la figlia, se non nella figura impotente e straziante della madre di María, che vaga per uffici e caserme in cerca di una verità che le viene sistematicamente negata. È un mito spogliato di ogni poesia, ridotto a un meccanismo di sopraffazione sporco e concreto. Félix non è un dio, ma un ingranaggio mediocre in una macchina di morte, e il suo potere su María non è divino, ma semplicemente quello che un uomo con un'arma e senza scrupoli ha su una donna bendata e incatenata.

La regia di Bechis è di una precisione chirurgica, quasi documentaristica nel suo pedinamento dei corpi e degli spazi. La fotografia desaturata, i colori smorti del garage, creano un contrasto stridente con i rari squarci del mondo esterno, inondati da una luce quasi dolorosa per gli occhi abituati al buio. Questa scelta estetica non è un vezzo, ma una dichiarazione di intenti: il mondo del Garage Olimpo è un universo cromaticamente ed emotivamente prosciugato, un'aberrazione che contamina la realtà. Bechis inserisce dettagli che sono pugnalate silenziose: il coccodrillo che vive in una vasca nel garage, simbolo di una ferocia primordiale e dormiente nel cuore della civiltà; i nomignoli affibbiati ai prigionieri e ai torturatori, tentativo estremo di spersonalizzare sia la vittima che il carnefice; l'uso burocratico e asettico del linguaggio per descrivere l'orrore, con il termine "traslado" (trasferimento) a significare l'omicidio e la sparizione del corpo.

Si potrebbe essere tentati di tracciare un parallelo con "Salò o le 120 giornate di Sodoma" di Pasolini per la rappresentazione di un potere sadico e totalizzante che si accanisce sui corpi. Ma se Pasolini costruisce un'allegoria gelida e ritualistica, un teorema sulla natura del potere ispirato a de Sade, Bechis adotta un approccio opposto. Il suo è un realismo viscerale, quasi fisico. L'orrore in "Garage Olimpo" non è rituale, è quotidiano; non è estetizzato, è sporco. È l'orrore di un materasso lercio, di un secchio usato come latrina, di una parola gentile pronunciata dalla stessa bocca che un attimo prima ha ordinato un'atrocità. È più vicino, forse, alla letteratura di Primo Levi, alla sua analisi lucida e implacabile dei meccanismi della disumanizzazione, alla sua capacità di mostrare come l'inferno possa avere l'aspetto di un luogo ordinario e i suoi custodi il volto di persone qualunque.

Il film, girato negli stessi luoghi dove sorgeva uno dei veri centri di detenzione clandestina, si carica di un peso meta-testuale enorme. Diventa un atto di esorcismo, un tentativo di restituire una storia a muri che sono stati testimoni silenziosi di un orrore indicibile. È un cinema che si fa strumento di memoria, non per emettere sentenze storiche, ma per indagare le zone grigie dell'animo umano e la fragilità delle strutture civili. La domanda che il film pone, senza mai esplicitarla, è universale e terribilmente attuale: cosa trasforma un uomo comune in un torturatore? E cosa permette a una società di voltarsi dall'altra parte mentre l'orrore si consuma nel garage della porta accanto?

"Garage Olimpo" non offre risposte facili né consolazione. Il suo finale, secco e improvviso, è un pugno nello stomaco che nega allo spettatore qualsiasi catarsi. Ci lascia con l'immagine di un'assenza, con il vuoto lasciato da una delle migliaia di desaparecidos. È un'opera che rifiuta la spettacolarizzazione del dolore per concentrarsi sulla sua meccanica perversa, dimostrando che il cinema più potente è spesso quello che sottrae, che allude, che costringe lo spettatore a riempire i vuoti con la propria immaginazione e la propria coscienza. Non è un film da "vedere", ma un'esperienza da attraversare, un pezzo di cinema necessario e spietato che si insinua sotto la pelle e continua a interrogare molto tempo dopo che le luci in sala si sono riaccese. Un capolavoro austero e incandescente, che trasforma un luogo fisico in un simbolo universale della capacità umana di creare l'inferno in terra.

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