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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Gente comune

1980

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La facciata levigata di un certo sogno americano, quello suburbano, patinato e W.A.S.P. delle villette a schiera nel Midwest, nasconde spesso un'architettura emotiva fatiscente. Sotto i prati perfettamente rasati di Lake Forest, Illinois, si estende una rete di crepe sismiche pronte a inghiottire chiunque osi guardare oltre la superficie. "Gente comune" di Robert Redford non è un film su una tragedia; è la dissezione autoptica delle sue conseguenze, un dramma da camera che si svolge non in salotti polverosi ma in stanze immacolate dove il silenzio ha il peso specifico del piombo. Che sia stato proprio Robert Redford, l'icona solare e l'archetipo del "Golden Boy" americano, a dirigere come opera prima un film che smonta metodicamente quel medesimo mito, è un cortocircuito meta-testuale di rara potenza. È come se Apollo scendesse dall'Olimpo per raccontarci con sguardo clinico le nevrosi dei suoi fedeli.

Il film, adattato dal romanzo di Judith Guest, si apre non con l'incidente scatenante, ma con il suo strascico tossico. Il giovane Conrad Jarrett (un Timothy Hutton la cui fragilità quasi trasparente gli valse un meritatissimo Oscar) è appena tornato a casa da un ospedale psichiatrico dopo un tentato suicidio. La sua colpa, agli occhi di sé stesso e, implicitamente, di sua madre, è quella di essere sopravvissuto a un incidente in barca in cui ha perso la vita il fratello maggiore, Buck, il primogenito perfetto, l'atleta, l'erede designato del regno suburbano. La famiglia Jarrett, da quel momento, cessa di essere un organismo vivente per trasformarsi in un'installazione museale della normalità. Il padre, Calvin (un Donald Sutherland magnificamente impotente, la cui bonarietà si sgretola in un'angoscia palpabile), tenta goffamente di ricollegare i fili di una comunicazione interrotta, agendo come un maldestro operatore di un centralino in cui tutte le linee sono morte. E poi c'è lei, Beth (Mary Tyler Moore), il centro di gravità negativo della casa.

Il casting di Mary Tyler Moore è un colpo di genio sovversivo che ancora oggi riecheggia. L'eterna "America's Sweetheart", la ragazza della porta accanto della televisione, viene qui trasfigurata in una Medea del Midwest, una madre incapace di perdonare al figlio sopravvissuto non la morte dell'altro, ma il disordine che la sua sofferenza ha introdotto nel loro mondo impeccabile. La sua performance è un capolavoro di sottrazione. Beth non urla, non si dispera; la sua rabbia e il suo dolore sono sublimati in un controllo ossessivo sull'arredamento, sulla perfezione delle cene, sulla piega dei pantaloni. Ogni suo sorriso tirato è una smorfia di rimprovero, ogni gesto di cortesia una barriera di ghiaccio. Vive la vita come una partita di golf: l'importante è la forma, lo stile, mantenere il punteggio, non farsi scomporre dalle intemperie emotive. Se i romanzi di John Cheever avessero una musa cinematografica, sarebbe la Beth Jarrett di Mary Tyler Moore, intrappolata nella sua prigione di porcellana, terrorizzata dal pensiero che una singola crepa possa mandare in frantumi l'intera, vuota, costruzione.

Redford dirige con una sobrietà che è l'esatto contrario della sua recitazione carismatica. La sua macchina da presa è un osservatore paziente, quasi voyeuristico, che incornicia i personaggi all'interno di architetture domestiche che li soffocano. Le inquadrature sono spesso statiche, geometriche, a evocare la rigidità emotiva dei protagonisti. I colori autunnali, i marroni, i beige, i grigi, non suggeriscono il calore del focolare, ma il lento decadimento di un organismo. C'è una qualità pittorica che rimanda direttamente a Edward Hopper: figure isolate nello stesso spazio, vicine fisicamente ma separate da un abisso di incomprensione. La vera azione del film non è negli eventi, ma negli sguardi mancati, nelle pause innaturali, nelle frasi lasciate a metà. È un cinema dell'indicibile, dove il dialogo più importante è quello che non avviene.

In questo deserto emotivo, l'arrivo del dottor Berger (un Judd Hirsch vulcanico e meravigliosamente imperfetto) è l'equivalente di un meteorite. Berger non è l'analista freudiano distante e oracolare; è un terapista ebreo, caloroso, schietto fino alla brutalità, che pratica una sorta di maieutica socratica dell'anima. Il suo studio, disordinato e vissuto, è l'antitesi speculare della casa-museo degli Jarrett. È lì che Conrad, e per estensione il film, trova la sua valvola di sfogo. Le sedute tra Conrad e Berger sono tra le più realistiche e potenti mai viste al cinema. Non ci sono epifanie improvvise, ma un lavoro lento, doloroso, di scavo. Berger costringe Conrad a smettere di scusarsi per la sua esistenza, a riconoscere che il dolore e la rabbia non sono anomalie da nascondere, ma parte integrante del processo di guarigione. È la nascita di una catarsi laica, un rito di passaggio che avviene non in chiesa o in famiglia, ma nello spazio protetto e profano di uno studio medico.

La controversia che accompagna da sempre "Gente comune" è la sua vittoria all'Oscar come Miglior Film ai danni di "Toro Scatenato" di Martin Scorsese. A uno sguardo superficiale, sembra il trionfo del convenzionale sull'artistico, del dramma borghese sulla tragedia espressionista. Ma questa lettura è riduttiva. La scelta dell'Academy nel 1981 non fu meramente estetica, ma profondamente culturale. "Toro Scatenato" era l'ultimo, magnifico spasmo della New Hollywood degli anni '70: un cinema maschio, violento, autodistruttivo, che guardava nell'abisso dell'anima americana senza offrire redenzione. "Gente comune", al contrario, era il film perfetto per l'alba dell'era Reagan. Pur essendo critico verso i valori superficiali della borghesia, offriva una via d'uscita, una possibilità di guarigione attraverso la terapia, la comunicazione, la riscoperta di un'onestà emotiva. Se il film di Scorsese era una discesa agli inferi senza ritorno, quello di Redford era un percorso terapeutico che suggeriva che, sì, la "gente comune" poteva farcela. L'America, all'inizio degli anni '80, voleva sentirsi dire questo. Voleva la promessa di una ricomposizione, non la contemplazione del caos.

Ma ridurre "Gente comune" a un semplice prodotto del suo tempo sarebbe un errore. La sua influenza è carsica e profonda. Ha sdoganato la rappresentazione della salute mentale e della terapia al cinema, aprendo la strada a decenni di narrazioni che esplorano il trauma psicologico con serietà e senza sensazionalismi. Il suo ritmo compassato e la sua attenzione quasi letteraria per la psicologia dei personaggi lo rendono un'anomalia nel panorama del cinema mainstream, più vicino a un'opera di Ingmar Bergman (si pensi a "Scene da un matrimonio" trasferito in un sobborgo americano) che a un tipico dramma hollywoodiano. E c'è un ultimo, sottile tocco di genio: la colonna sonora, dominata dal Canone in Re maggiore di Pachelbel. Un brano che è l'epitome della bellezza ordinata, della progressione armonica perfetta, quasi matematica. Redford lo usa in modo straniante, come contrappunto ironico al disfacimento emotivo che vediamo sullo schermo. La musica rappresenta l'ordine a cui i Jarrett aspirano, una melodia perfetta e rassicurante che suona beffarda mentre la loro vita va in pezzi. È la colonna sonora della loro negazione.

"Gente comune" è un film che respira, che fa male, che costringe lo spettatore a confrontarsi con il disagio dei suoi silenzi. Non offre catarsi facili o riconciliazioni hollywoodiane. Il finale, con la partenza di Beth e l'abbraccio incerto ma sincero tra padre e figlio, è tanto doloroso quanto liberatorio. È l'accettazione che alcune ferite non si possono ricucire e che la vera famiglia non è quella definita dai legami di sangue o dalle apparenze, ma quella che si ricostruisce sulle macerie, imparando un nuovo, difficile linguaggio: quello della vulnerabilità. È un capolavoro tranquillo, la cui potenza non esplode, ma implode, lasciando un'eco duratura nell'anima di chi guarda. Un'eco che sussurra una verità scomoda: la normalità, a volte, è solo la forma più elegante di disperazione.

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