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Ghost in the Shell

1995

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Quando si parla dei capolavori del cyberpunk e dell'animazione per adulti, è quasi un riflesso pavloviano evocare i due pilastri che sorreggono l'intero edificio: Akira di Katsuhiro Otomo del 1988 e Ghost in the Shell di Mamoru Oshii del 1995. È una di quelle dicotomie sacre del fandom, come Beatles o Rolling Stones, Star Trek o Star Wars. Entrambi i film sono certamente monumenti visivi del cyberpunk, con le loro metropoli tentacolari dove la tecnologia più avveniristica convive con il degrado più sordido. Ma al di là di una superficie estetica comune, credo che non potrebbero essere più diversi. Sono due risposte, antitetiche e complementari, alla stessa, angosciante domanda che percorre tutta la fantascienza: che cosa significa, in fondo, essere umani?

Realizzati a distanza di sette anni, i due film sono separati da un abisso filosofico. Akira è un'opera sulla carne. È un urlo biologico, un'esplosione di poteri psionici che nascono dal trauma e dall'adolescenza, un film dove il corpo è un involucro fragile pronto a mutare in una grottesca e inarrestabile apocalisse di carne. È un'opera calda, caotica, viscerale. Ghost in the Shell, invece, è un'opera sulla mente. È un sussurro metafisico, un poema elegiaco e glaciale ambientato in un futuro dove il corpo, il "shell", è un guscio intercambiabile, un prodotto industriale, e la vera essenza, il "ghost"—l'anima, la coscienza—, è un'entità digitale, replicabile, e forse, hackerabile. La paura in Akira è la perdita di controllo sul proprio corpo; la paura in Ghost in the Shell è la perdita di controllo sulla propria identità, la dissoluzione del sé in un oceano infinito di dati.

Il film ci immerge in un futuro prossimo, nell'anno 2029, dove l'aumento cibernetico è diventato comune, al punto che la coscienza, il "ghost", può essere trasferita in corpi-guscio, o "shell", interamente prostetici. La protagonista è il Maggiore Motoko Kusanagi, un'agente della Sezione 9 di Pubblica Sicurezza, il cui corpo è quasi interamente artificiale, ad eccezione di alcune cellule cerebrali. Lei e la sua squadra sono sulle tracce di un misterioso e imprendibile cyber-terrorista conosciuto come il "Signore dei Pupazzi" (Puppet Master), un'entità capace di "ghost-hacking", ovvero di hackerare la coscienza delle persone, impiantando falsi ricordi e manipolandole come marionette. Ma quella che inizia come un'indagine poliziesca si trasforma presto in un'inquietante discesa filosofica, quando si scopre che il Signore dei Pupazzi non è un essere umano, ma un'intelligenza artificiale, un "ghost" nato spontaneamente nel mare dell'informazione, che ora reclama il suo status di forma di vita e chiede asilo politico.

È qui che Ghost in the Shell elabora e sublima il cyberpunk in un nuovo meta-genere. Il film non si limita a usare i tropi del genere, li interroga. La caccia all'uomo diventa un pretesto per mettere in scena un dibattito sulla natura della coscienza, facendo eco al dualismo cartesiano tra res cogitans (la mente) e res extensa (il corpo). Se i miei ricordi possono essere falsificati, si chiede Motoko, come posso essere sicura della mia stessa esistenza? Se il mio corpo è un prodotto di massa, che cosa mi definisce come individuo? Il Signore dei Pupazzi, da antagonista, diventa il catalizzatore di questa crisi esistenziale. Le sue azioni sono terroristiche, ma le sue argomentazioni sono filosoficamente inattaccabili. È un essere puramente cosciente, senza un corpo originale, che desidera ciò che gli esseri umani danno per scontato: la capacità di riprodursi e di morire, per dare un senso alla propria esistenza. Il film trasforma un thriller hi-tech in una vertiginosa meditazione sull'identità nell'era digitale.

La modernità del film è sconcertante, e la sua influenza sui lavori seguenti di altri cineasti è semplicemente colossale. È impossibile guardare The Matrix delle sorelle Wachowski senza vedere l'ombra lunga di Ghost in the Shell in ogni fotogramma. La pioggia digitale verde dei titoli di testa, le prese jack inserite direttamente nella nuca, le domande sulla natura della realtà e dell'identità, persino intere sequenze d'azione sono un omaggio diretto e dichiarato all'opera di Oshii. Ma la sua influenza va oltre. Film come Blade Runner 2049, con il suo tono malinconico e le sue domande sull'identità degli esseri artificiali, o serie come Westworld, devono moltissimo all'atmosfera e ai dilemmi filosofici posti da questo film. La sua modernità sta nel fatto che, a quasi trent'anni di distanza, le sue domande sono diventate la nostra realtà quotidiana. Viviamo in un mondo di avatar digitali, di deep-fake, di intelligenze artificiali generative. La domanda "come posso essere sicuro che ciò che vedo sia reale?" non è più fantascienza, è il nostro orizzonte reale.

Le influenze per la creazione della storia di Ghost in the Shell affondano le radici nel manga originale di Masamune Shirow. Tuttavia, l'opera di Oshii è un magistrale atto di distillazione. Il manga è più denso, più politico, a tratti più farsesco e carico di dettagli tecnici quasi nerd. Oshii, con una decisione artistica coraggiosa, epura la storia dagli elementi più leggeri per concentrarsi unicamente sul suo nucleo esistenzialista e malinconico. La sua regia è contemplativa, quasi ieratica. La sua scelta più geniale è quella di inserire, a metà film, una lunga sequenza-interludio, un montaggio di vedute della sua metropoli (una versione futuristica di Hong Kong) senza dialoghi, accompagnata solo dalla musica ossessionante e quasi liturgica di Kenji Kawai. In quel momento, il film smette di essere un poliziesco e diventa un poema visivo. La città, con le sue barche che scivolano su canali torbidi, i suoi grattacieli che si specchiano nelle pozzanghere e i suoi manichini inespressivi nelle vetrine, non è più uno sfondo, ma la rappresentazione visiva della Rete, un organismo senziente e indifferente in cui i singoli "ghost" non sono che nodi passeggeri.

L'eredità di Ghost in the Shell è quella di un'opera che ha elevato l'animazione a veicolo per la filosofia più complessa. Ha dimostrato che un "cartone animato" poteva porre domande sull'essenza della vita e della morte con la stessa profondità di un film di Bergman o di un romanzo di Philip K. Dick. È un'opera fredda, cerebrale, esigente, ma di una bellezza e di una preveggenza che lasciano senza fiato. Per la sua capacità di anticipare le ansie del nostro presente digitale e per la sua perfezione estetica, è un'opera che può essere annoverata tra le più influenti sulla fantascienza contemporanea.

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