Gli angeli con la faccia sporca
1938
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Regista
Quella camminata lungo il miglio verde, decenni prima che Stephen King ne facesse un topos letterario, è una delle più strazianti e filosoficamente dense della storia del cinema. Non è un’anabasi verso la salvezza, ma una catabasi nell'abiezione, un deliberato, calcolato martirio secolare. Il corpo di James Cagney, solitamente un fascio di nervi e spavalderia, un condensato di energia cinetica pronto a esplodere, si fa qui strumento di una domanda etica lancinante. Mentre Rocky Sullivan viene trascinato verso la sedia elettrica, urlando e piangendo come un codardo, il film di Michael Curtiz non sta semplicemente mettendo in scena la fine di un gangster. Sta officiando una liturgia profana sul potere della narrazione, sull'iconoclastia come atto di fede e sulla costruzione del mito attraverso la sua stessa demolizione.
Gli angeli con la faccia sporca è un film che opera su un doppio binario di rara intelligenza, un prodotto quasi schizofrenico dell'era del Codice Hays che riesce a essere al contempo un'esaltazione dell'archetipo del gangster e la sua più radicale decostruzione. Da un lato, abbiamo il Rocky di Cagney, un'icona di carisma e ribellione. È l'apoteosi del self-made man deviato, il prodotto tossico del ghetto che, attraverso l'astuzia e la violenza, piega il mondo al suo volere. Cagney non lo interpreta: lo incarna. I suoi movimenti, quel dondolio delle spalle, quel modo di aggiustarsi il colletto e di proiettare la mascella in avanti, sono un balletto di sfida al sistema. È un linguaggio del corpo che comunica più di mille dialoghi sulla disillusione post-Grande Depressione. Per i Dead End Kids, la sgangherata banda di ragazzini di strada che lo venera, Rocky è un eroe omerico, l'unica narrazione di successo possibile in un mondo che offre loro solo miseria e oblio.
Sull'altro fronte, in un contrappunto dialettico perfetto, si erge la figura del Padre Jerry Connolly, interpretato da un solido e accorato Pat O'Brien. Jerry è l'altra faccia della medaglia, il ragazzo del quartiere che ha scelto la via della fede e della comunità. Lui e Rocky sono come i due Dioscuri di un Vangelo apocrifo della strada, legati da un peccato originale comune – un furto giovanile in cui solo Rocky viene catturato – che ha segnato per sempre i loro destini divergenti. La loro amicizia, un legame fraterno che scavalca le barricate della legge e della morale, è il cuore pulsante del film. Ma il loro confronto è anche una battaglia per l'anima della successiva generazione, un duello combattuto non con le pistole ma con i simboli. Jerry offre la salvezza spirituale, un percorso lungo e difficile; Rocky offre la gratificazione immediata, il fascino del potere, la scorciatoia della violenza.
In questo, il film di Curtiz si eleva al di sopra del gangster movie convenzionale per diventare un'analisi quasi sociologica, un'opera che anticipa le riflessioni sulla devianza e sull'influenza dei modelli culturali. La Warner Bros., lo studio dei "lavoratori", era maestra nel catturare il polso della nazione, e Gli angeli con la faccia sporca è un sismografo perfetto delle ansie del suo tempo. Si avverte l'eco della disillusione economica, la sfiducia nelle istituzioni e l'idea, profondamente radicata, che l'unica via d'uscita dalla povertà sia quella illegale. Rocky non è semplicemente un "cattivo"; è una conseguenza logica del suo ambiente, un fiore velenoso cresciuto nel cemento.
Ma è proprio qui che il genio sovversivo del film, costretto a muoversi nelle maglie strette della censura, si manifesta. Il Codice Hays imponeva una regola ferrea: il crimine non deve pagare. Il criminale non può essere glorificato e deve fare una fine misera. Molti film si limitavano a un finale moraleggiante posticcio, un pistolotto finale che suonava falso dopo novanta minuti di fascinazione per l'antieroe. Gli angeli con la faccia sporca, invece, interiorizza il codice e lo trasforma in un dilemma morale per il suo protagonista. La richiesta di Padre Jerry a Rocky prima dell'esecuzione – "Muori da vigliacco, distruggi la tua leggenda per salvare questi ragazzi" – è un colpo di scena di una profondità abissale. Non gli chiede di pentirsi per la sua anima, ma di sacrificare la sua immagine, il suo unico vero patrimonio, per il bene della comunità. Gli chiede di compiere l'atto più eroico della sua vita fingendo di essere un codardo.
Questa richiesta trasforma il film in un trattato metatestuale sul potere del cinema stesso. Rocky Sullivan è consapevole di essere un personaggio, un'icona la cui "performance" finale sarà riportata dai giornali e diventerà leggenda per i ragazzi del quartiere. La sua esecuzione non è solo una punizione legale; è un evento mediatico, un testo che verrà letto e interpretato. Scegliendo di "morire giallo", Rocky diventa l'autore finale della propria storia, manipolando la narrazione per ottenere un bene superiore. In un certo senso, compie un atto cristologico: si carica dell'infamia per redimere gli altri, accetta la vergogna al posto della gloria. È un paradosso vertiginoso: per diventare un vero angelo, deve fingersi il più spregevole dei demoni.
La regia di Michael Curtiz, spesso sottovalutato come un mero artigiano di studio, è qui di una precisione chirurgica. Non si perde in virtuosismi, ma serve la storia con un'efficienza muscolare e un senso del ritmo impeccabili. Le scene d'azione sono secche, brutali, prive di ogni romanticismo. Gli ambienti dei bassifondi di New York sono resi con un realismo espressionista, un labirinto di vicoli bui, scale antincendio e interni squallidi che sembrano intrappolare i personaggi in un destino ineluttabile. Curtiz orchestra la tensione magistralmente, costruendo un crescendo che culmina in quella camminata finale, un momento di cinema puro in cui il volto di Cagney diventa una mappa di emozioni contrastanti, un campo di battaglia tra orgoglio e sacrificio.
Resta, ovviamente, l'ambiguità finale, il vero sigillo di capolavoro del film. Rocky ha finto o era davvero terrorizzato? Il film non ci dà una risposta definitiva, e in questa reticenza risiede la sua grandezza. Lascia allo spettatore il peso della scelta, costringendolo a interrogarsi sulla natura del coraggio, sull'autenticità e sulla differenza tra ciò che un uomo è e ciò che rappresenta. Questa ambiguità è ciò che permette al film di superare i limiti del suo tempo e di parlare ancora oggi. In un'epoca di narrazioni iper-costruite e di identità performative, la domanda posta da Gli angeli con la faccia sporca risuona con una forza quasi profetica: è più importante la verità di un individuo o l'utilità della sua leggenda?
Confrontare Rocky Sullivan con il Tony Montana di De Palma o con il Michael Corleone di Coppola è illuminante. Se questi ultimi rappresentano la tragedia del potere che corrompe e isola, Rocky incarna un dilemma più fondamentale: quello tra l'affermazione dell'io e la responsabilità verso la collettività. Il suo sacrificio non è per la famiglia o per l'impero, ma per un'idea di futuro, per la possibilità che altri possano scegliere un percorso diverso. È un gangster movie che si conclude con un atto di fede, una storia di dannazione che si rivela essere, in ultima analisi, una complessa e dolorosa parabola sulla redenzione. Un capolavoro la cui faccia sporca nasconde un'anima di una purezza abbagliante e terribile.
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