Gli invasati
1963
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Regista
L'orrore non risiede nel buio, ma in ciò che la nostra mente proietta in esso. È un principio tanto elementare quanto disatteso da un genere cinematografico spesso incline all'esibizione plateale del mostruoso. Robert Wise, invece, nel 1963, erige questo assioma a fondamento architettonico del suo "Gli invasati" (The Haunting), un'opera che non è semplicemente un film su una casa stregata, ma la più sofisticata seduta psicoanalitica mai travestita da gotico contemporaneo. Il film, come la sua fonte letteraria, il capolavoro di Shirley Jackson "L'incubo di Hill House", comprende che la vera topografia dell'angoscia non è fatta di corridoi polverosi e porte cigolanti, ma dei labirinti contorti e delle stanze sigillate della psiche umana.
Wise, un regista la cui filmografia spazia con schizofrenica nonchalance dal musical immortale (West Side Story) alla fantascienza esistenziale (Ultimatum alla Terra), qui applica la lezione appresa alla scuola di Val Lewton, di cui fu un superbo montatore. La regola aurea di Lewton – suggerire, mai mostrare – viene elevata a vertigine ermeneutica. Hill House non è infestata da spettri, ma è essa stessa lo spettro: un'entità architettonica malevola, un costrutto di angoli sbagliati e prospettive innaturali la cui geometria perversa sembra progettata da un Piranesi sotto l'effetto di laudano. Il direttore della fotografia David Boulton, armato di una lente Panavision da 30mm appositamente deformata, trasforma ogni inquadratura in un'aggressione percettiva. I soffitti incombono, le pareti si incurvano, i volti si distorcono ai margini dell'immagine, intrappolando i personaggi – e noi con loro – in un incubo panottico da cui è impossibile fuggire. La casa non è uno sfondo, è il protagonista ontologico, un organismo che respira, osserva e, soprattutto, desidera.
E ciò che desidera è Eleanor Lance. Julie Harris offre una delle più strazianti e terrificanti interpretazioni della storia del cinema, incarnando una fragilità che sconfina nella patologia. Eleanor non è l'eroina del racconto, ma il suo catalizzatore, il suo combustibile psichico. Una donna di trentadue anni la cui esistenza è stata un deserto di doveri e repressione, accudendo una madre dispotica fino alla sua morte. La sua partecipazione all'indagine paranormale del Dottor Markway (un posato Richard Johnson) non è una ricerca del brivido, ma un disperato atto di auto-affermazione, il primo vero "viaggio" della sua vita. Hill House, per lei, non è una prigione ma una promessa: la promessa di essere finalmente vista, scelta, di appartenere a qualcosa. La sua tragedia, e il cuore nero del film, risiede in questo cortocircuito emotivo: anela a una casa, a un focolare, e trova un utero famelico che la reclama.
Il film opera un geniale slittamento rispetto al romanzo di Jackson. Se nel libro l'ambiguità è totale – gli eventi sono reali o sono proiezioni della mente in frantumi di Eleanor? – Wise sceglie una terza via, più cinematografica e perturbante. Gli eventi sono reali perché Eleanor li proietta. La sua energia psichica, il suo desiderio represso, la sua solitudine cosmica diventano la chiave che apre le porte della percezione, dando forma e voce alla malevolenza latente della magione. È un'idea che anticipa di decenni le derive di film come Solaris di Tarkovskij, dove un pianeta senziente materializza i fantasmi della mente umana. Qui, la casa è l'oceano pensante e Eleanor è il suo astronauta perduto. Le manifestazioni – i colpi rimbombanti nei muri, le scritte spettrali, le gelide correnti d'aria – sono la sintassi di un dialogo tra la psiche di Eleanor e la coscienza della casa. Lei sussurra le sue paure e la casa le urla di rimando.
Il quartetto di personaggi è un microcosmo di approcci al reale. Oltre a Eleanor, l'eletta, e al Dr. Markway, lo scienziato che cerca di imbrigliare l'ignoto nella tassonomia della parapsicologia, abbiamo la telepate Theodora (una magnetica e androgina Claire Bloom) e il cinico erede Luke Sanderson (Russ Tamblyn). Theo, con la sua eleganza bohémien e la sua sensualità sardonica, funge da specchio e da rivale per Eleanor. La loro relazione è un balletto di attrazione e repulsione, carico di un sottotesto lesbico che nel 1963 era tanto audace quanto essenziale. Theo rappresenta la modernità, l'accettazione di sé, tutto ciò che Eleanor si nega. Luke, d'altro canto, è il materialista puro, l'uomo che vede solo mattoni e legname, incapace di concepire una realtà che non possa essere monetizzata. Il suo scetticismo, tuttavia, non lo protegge; lo rende semplicemente un testimone più impotente del disfacimento altrui.
Ma è l'arsenale tecnico di Wise a rendere "Gli invasati" un'esperienza quasi fisica. Il sound design è un capolavoro di terrorismo acustico. I suoni non provengono da fuori campo, ma sembrano generarsi direttamente nel cranio dello spettatore. Sono suoni organici, respiri gutturali, lamenti che paiono provenire dalle fondamenta stesse dell'edificio, o forse dalle profondità dell'inconscio. La celebre scena della camera da letto, in cui Eleanor e Theo si rannicchiano terrorizzate mentre una forza invisibile tenta di abbattere la porta, è un saggio su come generare panico senza mostrare assolutamente nulla. La porta si piega verso l'interno, il legno geme come un essere vivente, e la macchina da presa rimane fissa sui volti delle attrici, trasformando noi in complici del loro terrore. E poi, il colpo di grazia, il monologo interiore di Eleanor: "La paura è l'abbandono della logica... ma non devo avere paura... sta bussando in tutto il muro... non vuole entrare... sta cercando di uscire...". È una rivelazione folgorante: l'orrore non è un'intrusione esterna, ma un'eruzione interna.
Meta-testualmente, "Gli invasati" si pone come il punto di congiunzione tra l'orrore allusivo del gotico classico e la brutalità psicologica che avrebbe definito il cinema degli anni Settanta. È il discendente diretto de "La notte del demonio" di Tourneur e il padre spirituale di "Shining" di Kubrick. Come Jack Torrance, Eleanor è un'anima fragile che trova nell'architettura del male il palcoscenico ideale per la propria implosione. Ma se l'Overlook Hotel è un amplificatore della violenza patriarcale, Hill House è un catalizzatore della solitudine femminile, un luogo che non spinge a uccidere gli altri, ma a dissolvere sé stessi. La sua influenza è carsica e profonda, rintracciabile in opere come "The Others", che ne eredita l'atmosfera claustrofobica, o persino in certi anfratti di David Lynch, dove gli spazi domestici diventano teatri di dissociazione mentale.
Il finale è di una crudeltà e di una coerenza assolute. Il tentativo di "salvare" Eleanor portandola via da Hill House è l'atto finale che la condanna. Per lei, andarsene non significa tornare alla libertà, ma essere espulsa dall'unico luogo che l'abbia mai veramente "voluta". Il suo ultimo, disperato atto di ribellione è un tentativo di fusione totale con la casa, un martirio che è al contempo una liberazione. L'incidente d'auto che la uccide nello stesso punto in cui morì la prima signora Crain non è un semplice omicidio spettrale, ma il compimento di un destino, la chiusura di un cerchio. Eleanor non è più un'ospite; è diventata parte delle fondamenta, un altro strato di dolore e memoria nella stratigrafia della casa.
Rivedere "Gli invasati" oggi significa riscoprire un cinema che aveva una fiducia smisurata nell'intelligenza del suo pubblico. Un cinema che non temeva l'ambiguità, che non sentiva il bisogno di spiegare ogni sussurro o ogni ombra. È un'opera che ci sfida a guardare, ma soprattutto ad ascoltare, e a interrogarci sulla natura stessa delle pareti che ci circondano, chiedendoci se non siano, in fondo, che proiezioni solidificate delle nostre paure più intime. La voce narrante di Eleanor chiude il film con le stesse parole con cui si apre il romanzo di Jackson, suggellando la sua trasformazione da vittima a genius loci. La sua solitudine ha finalmente trovato una dimora eterna. E noi, spettatori, rimaniamo fuori, al freddo, a contemplare il mistero di quella facciata buia, consapevoli che qualunque cosa si aggirasse lì, ora, come allora, si aggira da sola.
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