Gli spietati
1992
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Regista
La pioggia, nel West di Clint Eastwood, non purifica. Scava solchi nel fango, si mescola al sangue e al whisky, e batte incessante sui tetti di Big Whiskey, Wyoming, come il metronomo di una fine annunciata. È il 1992 e il western, come genere, è un cadavere più o meno freddo sul tavolo dell'obitorio di Hollywood, sezionato a più riprese negli anni '70 e poi abbandonato. E chi meglio di Eastwood, il fantasma dal poncho, l'archetipo silenzioso forgiato nel crogiolo di Sergio Leone, poteva officiare il suo funerale? Ma Gli Spietati non è un semplice epitaffio. È un'autopsia spietata, un esame forense del mito americano condotto con il bisturi della disillusione. È l'ultimo, vero, grande western proprio perché ne è la negazione più completa e definitiva.
Il film, nato da una sceneggiatura di David Webb Peoples che circolava da quasi vent'anni (Francis Ford Coppola ne aveva detenuto i diritti per un periodo), attese pazientemente il suo regista e il suo attore. Eastwood aspettò di invecchiare, di avere sul volto le stesse crepe che il tempo e il rimorso avevano inciso nell'anima del suo William Munny. E in questa attesa c'è già il cuore del film: la distanza tra la leggenda e la carne. Munny non è un pistolero ritiratosi in gloria. È un allevatore di maiali fallito, vedovo, goffo, tormentato dai fantasmi di "donne e bambini" uccisi in passato, un uomo la cui redenzione attraverso l'amore di una donna sembra tanto fragile quanto la sua salute. Quando prova a sparare a una lattina, la manca clamorosamente. Questo non è il ritorno dell'eroe; è il rantolo di un demone che si credeva sopito.
Il film opera per contrappunti dialettici, smontando ogni pilastro della mitologia western. Abbiamo la leggenda vivente, English Bob (un Richard Harris magnifico nella sua teatrale decadenza), un dandy della pistola la cui biografia romanzata, scritta dal suo personale Omero, W.W. Beauchamp, si sgretola sotto le torture sadiche dello sceriffo Little Bill Daggett. E qui si annida il primo, geniale cortocircuito. Il rappresentante della legge, Little Bill (un Gene Hackman monumentale, giustamente premiato con l'Oscar), non è il baluardo della civiltà contro la barbarie. Anzi, è la barbarie che si è data una stella di latta e si è messa a costruire una casa (storta, metafora fin troppo perfetta della sua anima). Little Bill è il vero mostro del film: un uomo che smonta il mito della pistola per affermare il proprio potere, un sadico che gode nell'umiliare e che rappresenta una violenza molto più terrificante di quella febbrile di Munny: la violenza sistematica, legittimata, burocratica. La sua brutalità non è un'esplosione di caos, ma l'esercizio metodico di un ordine perverso.
Il personaggio di Beauchamp, il biografo pulp, è il nostro specchio. È l'incarnazione del pubblico, affamato di storie epiche, di duelli al sole, di eroi infallibili. Egli cerca la verità del West e la trova, ma non è quella che si aspettava. La sua educazione sentimentale alla violenza è una delle traiettorie più affascinanti del cinema moderno. Passa dall'adorazione per l'elegante menzogna di English Bob al terrore reverenziale per la brutale verità di Little Bill, per poi trovarsi di fronte all'apocalisse incarnata da Munny nel finale. La "verità" non è né nobile né eroica. È un uomo anziano che non riesce a montare a cavallo, un ragazzo miope (lo Schofield Kid) che spara a un uomo seduto nel cesso e ne resta traumatizzato a vita, e un vecchio amico, Ned Logan (Morgan Freeman), la cui coscienza gli impedisce di premere il grilletto, segnando la sua condanna.
La violenza in Gli Spietati è antispettacolare. Non ha la coreografia quasi operistica di Leone o il ralenti elegiaco di Peckinpah. È sgraziata, sporca, patetica. L'omicidio del cowboy Quick Mike è un affare lungo, penoso e privo di qualsiasi catarsi. "È una cosa grossa uccidere un uomo," balbetta Munny. "Gli porti via tutto quello che ha. E tutto quello che sperava di avere." In questa frase c'è il testamento morale del film. Uccidere non è un atto estetico, ma un buco nero che inghiotte il futuro. La trasformazione finale di Munny, innescata dalla morte di Ned, non è un trionfo. È una ricaduta. L'alcol, che la moglie gli aveva fatto abbandonare, risveglia il mostro. La scena nel saloon non è un duello, ma un'esecuzione sommaria, un massacro condotto da un angelo della morte ubriaco e spettrale. "Chi è il padrone di questo buco di merda?" non è la battuta di un eroe, ma il ringhio di una bestia tornata alla sua natura primordiale. Munny non salva nessuno, non afferma nessun principio di giustizia. Esegue una vendetta personale e nichilista, diventando il killer che la sua stessa leggenda raccontava. "Meritarlo non c'entra niente," dice, e in quella frase crolla l'intero edificio morale del genere western.
Visivamente, il film è un quadro di Andrew Wyeth immerso nel fango. La fotografia di Jack N. Green è desaturata, quasi monocromatica. I cieli non sono quelli sconfinati e maestosi di John Ford; sono bassi, oppressivi, carichi di una pioggia che sembra non finire mai. I paesaggi non ispirano un senso di frontiera e possibilità, ma di isolamento e fine del mondo. La stessa cittadina di Big Whiskey è un avamposto sgangherato, privo di ogni romanticismo. Persino la colonna sonora, composta dallo stesso Eastwood, è minimale, un tema malinconico e scarno che accompagna i personaggi verso il loro destino senza mai celebrare nulla.
Gli Spietati è un'opera profondamente meta-testuale, un dialogo serrato di Eastwood con la propria icona. Il volto che vediamo è quello dell'Uomo senza Nome, ma gli occhi sono stanchi, la mira è incerta e l'anima è carica di un peso che i suoi alter ego leoniani non hanno mai conosciuto. Non è un caso che il film sia dedicato a "Sergio e Don" (Leone e Siegel), i due maestri che lo hanno definito. È il suo modo di congedarsi da loro, di chiudere un cerchio, mostrando cosa si nasconde davvero dietro il mito che hanno contribuito a creare. Se l'eroe western classico è una figura quasi omerica, il William Munny di Eastwood assomiglia più a un personaggio uscito da un romanzo di Cormac McCarthy, un reduce di una guerra eterna la cui unica pace possibile è l'oblio.
Il finale, con quella scritta che ci informa della sua presunta sparizione a San Francisco, è la chiusura perfetta del cerchio. L'uomo, William Munny, svanisce, forse ritrovando un barlume di quella pace che la moglie gli aveva donato. Ma il mito, "l'assassino di donne e bambini", quello rimane, immutabile e terribile. Gli Spietati è una seduta spiritica che evoca i fantasmi del West per esorcizzarli, per mostrarceli in tutta la loro miserabile e tragica umanità. È un capolavoro crepuscolare, l'ultimo lampo di un sole che tramonta sulla frontiera, lasciando dietro di sé solo ombre, rimpianti e il sapore amaro della leggenda.
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