Gli uomini preferiscono le bionde
1953
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Regista
Un cavallo di Troia rivestito di Technicolor e diamanti. Ecco la definizione più calzante per la sfavillante, e solo in apparenza innocua, creatura cinematografica che è Gli uomini preferiscono le bionde. Liquidarlo come un semplice musical zuccheroso dell'età d'oro di Hollywood sarebbe un errore critico madornale, l'equivalente di scambiare un'opera di Jeff Koons per un giocattolo da happy meal. Sotto la superficie laccata, orchestrata con la maestria di un burattinaio supremo da Howard Hawks, pulsa un cuore cinico, un trattato spietato sulla transazionalità dei rapporti umani nell'America del boom economico, il tutto mascherato da una commedia degli equivoci così leggera da sembrare fluttuare a mezz'aria.
Il genio di Hawks, un autore che ha sempre scolpito figure femminili di una modernità sbalorditiva (pensiamo alla Bacall de Il grande sonno o alla Russell di La signora del venerdì), risiede qui nel prendere il materiale satirico e affilato del romanzo di Anita Loos e, invece di smussarlo per le masse, lo sublima in un dispositivo metatestuale. Il film non si limita a raccontare la storia di due ballerine a caccia di mariti; esso mette in scena la performance della femminilità stessa. Marilyn Monroe, nel ruolo che la consacrerà a icona imperitura, non interpreta semplicemente Lorelei Lee; interpreta l'archetipo della "bionda svampita" con una consapevolezza quasi brechtiana. Lorelei non è stupida. È una stratega sopraffina, un Machiavelli in abito da sera la cui ingenuità è un'arma affilata con la precisione di un bisturi. La sua celebre battuta "Non sposeresti una ragazza ricca? [...] Non credi che una ragazza ricca sia una ragazza come le altre?" non è una gag, è il manifesto programmatico di una logica capitalista applicata alla sfera sentimentale, una logica che il film, lungi dal condannare, osserva con un divertimento quasi antropologico.
Lorelei è un prodotto e una venditrice del sogno americano, una versione glamour e iperfemminile dell'Horatio Alger, dove la scalata sociale non avviene tramite il duro lavoro in fabbrica ma attraverso una gestione impeccabile del proprio capitale simbolico e sessuale. La sua ossessione per i diamanti non è mera avidità; è una lucida comprensione della loro natura di bene rifugio, un'ancora di stabilità in un mondo di sentimenti volatili. In questo, il film anticipa di decenni certe correnti del pensiero femminista che analizzeranno il matrimonio come un contratto economico. La sua performance nella sequenza di "Diamonds Are a Girl's Best Friend", coreografata da un Jack Cole in stato di grazia, è un momento di cinema puro che trascende la narrazione. Il vestito rosa shocking di William Travilla, il set teatrale, i corteggiatori in smoking che si muovono come automi: tutto contribuisce a creare un'icona pop art prima che la Pop Art avesse un nome, un'immagine così potente da essere citata, omaggiata e parodiata all'infinito, da Madonna a Margot Robbie.
Ma il film non è un assolo di Marilyn. Anzi, il suo vero centro di gravità, il suo cuore pulsante e pragmatico, è la Dorothy Shaw di Jane Russell. Se Lorelei è il sogno, Dorothy è la realtà. È lei la vera "donna hawksiana": ironica, indipendente, con i piedi per terra, dotata di una sensualità terrena e di un'intelligenza caustica. La loro amicizia è una delle più belle e autentiche mai ritratte sullo schermo, una sorellanza basata su una lealtà incrollabile e una tacita comprensione reciproca. Il loro duetto iniziale, "Two Little Girls from Little Rock", è la chiave di volta dell'intero edificio narrativo: stabilisce il loro passato, le loro aspirazioni e il loro patto di mutuo soccorso. Non c'è rivalità tra loro, solo una perfetta sinergia. Dorothy non giudica mai la pragmaticità di Lorelei; al contrario, la protegge, fungendo da suo scudo e dalla sua coscienza critica, mentre Lorelei, a suo modo, garantisce a entrambe la possibilità di un futuro agiato. La loro dinamica prefigura le buddy comedy al femminile che arriveranno solo decenni più tardi, ma con una grazia e un'arguzia che raramente saranno eguagliate.
Hawks, da par suo, si diverte a sovvertire le aspettative e lo sguardo maschile (il famigerato male gaze). La sequenza in cui Dorothy canta "Ain't There Anyone Here for Love?" circondata dalla squadra olimpica maschile è un capolavoro di inversione. In un'epoca dominata dal Codice Hays, che imponeva rigide norme sulla rappresentazione della sessualità, Hawks trasforma una potenziale scena pruriginosa in un'esplorazione del desiderio femminile. Dorothy non è un oggetto passivo da ammirare; è un soggetto attivo che osserva, valuta e scarta i corpi maschili, ridotti a pure masse muscolari goffe e disinteressate, più concentrate sulla propria performance atletica che su di lei. È una scena di una comicità audace e sottilmente radicale, in cui il corpo maschile viene oggettivato con la stessa disinvoltura con cui, di solito, veniva oggettivato quello femminile.
L'intero film è costruito su una deliziosa artificialità. Il viaggio in transatlantico non ha nulla di realistico; è un palcoscenico galleggiante, un non-luogo dove le identità possono essere messe in scena e scambiate. Gli interni, con i loro colori saturi e primari, non cercano il verismo ma la stilizzazione, quasi a voler sottolineare che stiamo assistendo a una favola, una parabola moderna. Questa estetica, che deve tantissimo al genio del direttore della fotografia Harry J. Wild, crea un mondo ermetico, un diorama scintillante in cui le leggi della fisica e della morale comune sono sospese. Persino la trama farsesca, che coinvolge un investigatore privato, un diadema rubato e un vecchio milionario libidinoso (il "Piggy" di Charles Coburn), non è che un pretesto, un meccanismo da commedia dell'arte per far muovere i personaggi e svelare le loro vere nature.
Inserito nel suo contesto storico, l'America degli anni '50, il film diventa un documento culturale di eccezionale importanza. È il canto del cigno dell'ottimismo sfrenato del dopoguerra, un'ode al consumismo nascente e alla fede incrollabile nel potere del denaro come metro di ogni valore. Eppure, sotto questa celebrazione, serpeggia un'inquietudine, una critica implicita a una società che costringe le donne a usare il proprio corpo e la propria astuzia come unici strumenti di affermazione. Gli uomini preferiscono le bionde non è un film femminista nel senso moderno del termine, ma è innegabilmente un film sulle donne e sulle strategie di sopravvivenza che esse adottano in un mondo patriarcale. È un'opera più complessa e stratificata di quanto la sua reputazione di puro intrattenimento lasci supporre. È una commedia musicale che ha la profondità di una satira sociale, un'esplosione di gioia visiva che nasconde un'anima di un cinismo adamantino, proprio come un diamante: bellissimo, inscalfibile e terribilmente freddo.
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