Good Bye Lenin!
2003
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Regista
Sgombriamo subito il campo: questo film è una commedia così intelligente che riesce a ridere di un trauma collettivo come è effettivamente stato la caduta del Muro e la transizione ad un sistema democratico per tutti i tedeschi dell’Est. Ma definirlo semplicemente una commedia sarebbe riduttivo, quasi una lesa maestà nei confronti della sua stratificata profondità. Wolfgang Becker non si limita a strappare risate; egli disseziona con chirurgica precisione e inusuale tenerezza un'epoca, una cesura storica che ha ridefinito non solo la geografia politica, ma anche l'identità intima di milioni di individui. La caduta del Muro di Berlino, infatti, non fu un mero evento geopolitico, bensì un uragano di libertà e, paradossalmente, di spaesamento, che spazzò via certezze consolidate, abitudini e persino un intero immaginario collettivo, lasciando dietro di sé un vuoto tanto materiale quanto psicologico. La pellicola di Becker affronta questa vertiginosa perdita con una sagacia che eleva il genere comico a veicolo di riflessione sociologica e antropologica.
La storia è quella di Christiane, una donna la cui esistenza, fino a quel momento saldamente ancorata ai principi e alla routine della Repubblica Democratica Tedesca, viene bruscamente interrotta da un attacco cardiaco che la precipita in coma, proprio mentre la Storia, con la S maiuscola, sta compiendo il suo più imprevedibile dei salti. Al suo risveglio, “a giochi fatti”, come si suol dire, si ritrova catapultata in un universo radicalmente trasformato, un paesaggio urbano e culturale ormai irriconoscibile, intriso dei simboli del capitalismo occidentale.
Il figlio Alex, interpretato da un Daniel Brühl in stato di grazia, un giovane già proiettato verso le dinamiche del nuovo Occidente ma ancora profondamente legato alle radici familiari e affettive, si imbarca in una missione di pietas filiale di proporzioni epiche. Il suo intento non è solo armonizzare il rientro della madre in una società capitalistica scandita da nuovi ritmi e da nuovi ideali, ma è una corsa contro il tempo per proteggere la sua fragilità emotiva, per preservare un cuore già provato da antiche ferite private e ora minacciato da uno shock culturale di inaudita violenza. Ben presto si renderà conto che l’unico modo per proteggerla è di far credere alla donna di essere ancora sotto la rassicurante egida del comunismo.
Da qui l’idea di costruirle una sorta di ambiente protetto dove tutto fosse riconducibile al vecchio stile di vita. Questa non è una semplice finzione; è un'opera d'arte effimera, una gigantesca installazione performativa in cui Alex, con l'aiuto dell'amico cinefilo Denis, ricrea un simulacro della DDR. Ogni dettaglio è maniacalmente curato: le etichette dei prodotti alimentari riesumate dai bidoni della spazzatura e incollate su nuove confezioni occidentali, la musica d'epoca riprodotta con vinili scricchiolanti, e, soprattutto, i notiziari televisivi falsificati. Queste surreali edizioni del "Aktuelle Kamera" – il telegiornale della DDR – narrano una storia alternativa in cui l'Occidente si dissolve, il Muro rimane in piedi, e persino Coca-Cola diventa un'invenzione socialista. Qui la pellicola tocca vette di geniale metafora, trasformando il media in veicolo di una "verità" costruita, non dissimile da certe derive contemporanee sulla disinformazione, ma qui animata da un nobile intento filiale. Si potrebbe quasi leggere in filigrana un'eco della teoria della simulazione di Jean Baudrillard, dove la copia diviene più reale dell'originale, e la nostalgia, la celebre Ostalgie, non è solo un sentimento, ma un vero e proprio meccanismo di difesa identitaria.
Un plauso a Wolfgang Becker per aver saputo trovare leggerezza, levità e autoironia in un contesto così denso. La sua regia è un equilibrio precario e sublime tra la farsa più esilarante e il dramma più intimo. Egli non demonizza né glorifica il passato socialista; piuttosto, ne cattura l'essenza umana, le piccole gioie e le assurdità quotidiane, con un affetto sincero ma mai ingenuo. Le sequenze in cui Alex e Denis si affannano a mantenere in piedi la loro elaborata messinscena sono pura commedia degli equivoci, ma con una sottesa malinconia che eleva ogni risata. La fotografia di Martin Kukula contribuisce a questo effetto, alternando la desaturazione dei colori che evoca l'immagine della DDR – talvolta con toni caldi e nostalgici, altre volte con un grigiore quasi claustrofobico – alla luminosità accecante del nuovo capitalismo, con i suoi insegne luminose e i suoi prodotti scintillanti.
L'opera è intelligente, per molti versi dissacrante, ma sempre con un lirismo di fondo amaro e sospeso. Dissacrante perché osa ridere di simboli sacri e ferite ancora aperte, svelando l'assurdità di certe ideologie e la fragilità delle narrazioni ufficiali. Ma il suo lirismo emerge nella profonda umanità dei personaggi, nella rappresentazione del legame indissolubile tra madre e figlio, e nella dolorosa accettazione che il passato, per quanto idealizzato o criticato, è irrecuperabile. Il finale, in particolare, è un capolavoro di dolcezza e illusione, dove la "menzogna perfetta" di Alex non solo protegge Christiane, ma le concede un'uscita di scena degna e, in un certo senso, epica. È un film che ci interroga sulla natura della memoria collettiva e individuale, sulla verità che ci rende liberi e sulla menzogna che ci può, talvolta, proteggere. Un inno alla capacità umana di adattamento, ma anche un lamento per ciò che si perde inevitabilmente nel progresso inesorabile della Storia. La pellicola di Becker non è solo un documento storico travestito da commedia, è un'ode universale alla resilienza dello spirito umano di fronte ai terremoti esistenziali.
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