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Halloween - La notte delle streghe

1978

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L'Ombra non ha un volto. È questa la prima, fondamentale lezione impartita da John Carpenter nel suo distillato di terrore puro del 1978. Prima dei franchise pachidermici, prima delle contorte genealogie familiari e dei culti druidici, esisteva solo una sagoma, "The Shape", una tela bianca su cui proiettare l'ancestrale fobia dell'Uomo Nero. Michael Myers non è un personaggio nel senso narrativo del termine; è un glifo, un'assenza di motivazione che si fa presenza terrificante. Mentre il cinema dell'orrore post-freudiano si affannava a scavare nei traumi infantili per giustificare i suoi mostri, Carpenter, con la complicità di Debra Hill, compie un'operazione di una semplicità agghiacciante e radicale: resuscita il Male come concetto assoluto, inspiegabile, quasi teologico. Il dottor Loomis, il nostro Van Helsing suburbano e disperato, lo definisce con parole che sembrano prese da un sermone di Jonathan Edwards o da un racconto di M.R. James: "Ho incontrato questo bambino di sei anni, con questo volto pallido, inespressivo, e gli occhi più neri... gli occhi del diavolo". Non c'è psicologia, solo fenomenologia del terrore.

Per comprendere l'impatto sismico di Halloween, bisogna calarsi nel suo brodo di coltura: l'America del 1978. Un'America che si leccava le ferite del Vietnam e del Watergate, dove il sogno di una nazione si era incrinato e la fiducia nelle istituzioni era ai minimi storici. La periferia, il suburb, concepito come un eden borghese, un bastione di sicurezza e prosperità, aveva già iniziato a mostrare le sue crepe. Film come La conversazione di Coppola avevano insinuato il tarlo della paranoia, ma Halloween fa un passo ulteriore, definitivo: il mostro non è un'entità esterna, un conte transilvano o un'invasione aliena. Il mostro nasce dentro la fortezza. Haddonfield, Illinois, con le sue villette a schiera e i suoi viali alberati, è lo specchio di una normalità rassicurante che si scopre vulnerabile, un'illusione pronta a essere squarciata da un coltello da cucina. L'orrore non bussa più alla porta; è già in casa, al piano di sopra, e ti osserva da dietro una siepe. Questa implosione della sicurezza domestica è la vera rivoluzione copernicana del film, un'intuizione che sposterà l'asse del genere per i decenni a venire.

Ma la grandezza di Halloween non risiede solo nel suo sostrato tematico, quanto nella sua impeccabile esecuzione formale. Carpenter è un regista che pensa per immagini e suoni con una purezza quasi bressoniana. Armato del formato Panavision anamorfico, solitamente riservato a western ed epos, non lo usa per magnificare lo spazio, ma per opprimerlo. Gli ampi margini dell'inquadratura diventano zone d'ombra cariche di potenziale minaccia, vuoti che l'occhio dello spettatore perlustra con ansia crescente, in attesa che la sagoma bianca di Michael li riempia. La fotografia di Dean Cundey è un capolavoro di chiaroscuri espressionisti, un dialogo costante tra il blu cobalto della notte e l'arancione caldo e ingannevole delle zucche illuminate. E poi c'è l'uso della Steadicam, all'epoca ancora una novità tecnologica. I lunghi, sinuosi piani sequenza, come la celeberrima apertura in soggettiva, non sono un mero virtuosismo; sono uno strumento per immergerci in uno stato di trance ipnotica, per farci abitare lo sguardo del predatore prima e della preda poi. È un cinema che non racconta la paura, ma la inietta direttamente nel sistema nervoso dello spettatore.

E come non parlare della colonna sonora? Quel tema principale in 5/4, un tempo dispari e zoppicante che mima un battito cardiaco aritmico, è una delle partiture più iconiche e funzionali della storia del cinema. Composta dallo stesso Carpenter in pochi giorni, con una strumentazione sintetica minimale, è l'equivalente sonoro della maschera di Michael: semplice, ripetitiva, disumana. È un metronomo implacabile della suspense che agisce a livello subliminale, un segnale pavloviano che annuncia l'ineluttabile. In un'epoca dominata dalle partiture orchestrali lussureggianti alla John Williams, la scelta di Carpenter per un suono elettronico, freddo e spoglio, è un altro gesto di modernità radicale, un'intuizione che anticipa l'estetica sonora degli anni '80 e che evoca più i pionieri del minimalismo come Philip Glass che i compositori classici di Hollywood.

All'interno di questa architettura del terrore si muovono archetipi che il film contribuirà a cristallizzare per sempre. Laurie Strode, interpretata da una magistrale e vulnerabilissima Jamie Lee Curtis (figlia, in un cortocircuito metacinematografico perfetto, della Marion Crane di Psycho), è la capostipite di tutte le "Final Girl". Ma a differenza di molte sue pallide imitatrici, Laurie non è solo la vergine virtuosa che sopravvive al massacro dei suoi amici più "promiscui" – una lettura puritana che il film certamente consente ma non esaurisce. È intelligente, responsabile, materna (la sua professione di babysitter non è casuale). Quando l'orrore irrompe, non si limita a urlare: ragiona, improvvisa, combatte. Diventa una versione disperata e pragmatica dell'eroina d'azione. I suoi amici, Annie e Lynda, rappresentano l'edonismo spensierato e inconsapevole della gioventù suburbana, agnelli sacrificali inconsapevoli sull'altare di una moralità che il film sembra quasi applicare con la logica di una tragedia greca, dove la hybris viene punita dalla Nemesi.

Il mito di Halloween è anche intriso del suo stesso processo creativo, una testimonianza del genio che può scaturire dalla necessità. Realizzato con un budget irrisorio, il film è un trionfo di bricolage. La maschera, divenuta un'icona al pari di quella di Darth Vader o del volto di Frankenstein, fu creata modificando una maschera del Capitano Kirk di Star Trek da 1.98$, dipinta di bianco per renderla spettrale e inespressiva. Un oggetto della cultura pop rielaborato in un simbolo di terrore primordiale: quale metafora più potente per descrivere il metodo di Carpenter? La stessa ambientazione autunnale dell'Illinois fu ricreata faticosamente nella primavera della California del Sud, con foglie secche dipinte e sparse sul set. Questa estetica del "fare con poco" conferisce al film un'autenticità quasi documentaristica, una grana ruvida che i suoi epigoni, più patinati e costosi, non riusciranno mai a replicare.

Halloween non ha inventato lo slasher – il debito verso Psycho di Hitchcock è esplicito e riverente (il nome Loomis, la bionda pugnalata) e il canadese Black Christmas del 1974 ne aveva già gettato le basi – ma ne ha scritto il Vangelo. Ha codificato le regole, stabilito i ritmi, creato la sintassi visiva e narrativa che innumerevoli altri avrebbero seguito pedissequamente, spesso fraintendendone l'essenza. Hanno copiato il numero dei cadaveri, la violenza, il legame tra sesso e morte, ma hanno dimenticato la lezione più importante di Carpenter: l'orrore più profondo non risiede in ciò che si vede, ma in ciò che si attende, in quell'ombra immobile ai margini dell'inquadratura, in quel respiro affannoso che sentiamo fuori campo.

Il finale è la chiusura perfetta del cerchio. Michael viene ferito, accoltellato, crivellato di colpi, precipita da un balcone... ma quando Loomis si affaccia, il suo corpo è sparito. Non è una semplice trovata per preparare un sequel. È la dichiarazione poetica definitiva del film. Michael Myers non può essere ucciso perché non è mai stato veramente un uomo. È un'idea, un'astrazione della malignità. La geniale sequenza di chiusura, una carrellata di luoghi vuoti – una tromba delle scale, un salotto, un corridoio – accompagnata solo dal suono del respiro di Michael, ci dice che il Male non è stato sconfitto. Si è semplicemente dissolto di nuovo nell'ambiente, è tornato a essere una presenza invisibile nelle case silenziose di Haddonfield. E in quel momento, capiamo la verità più spaventosa di tutte. Haddonfield non è un luogo sulla mappa. Haddonfield siamo noi.

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