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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Hannah e le sue sorelle

1986

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L'architrave di Hannah e le sue sorelle poggia su tre cene del Ringraziamento, scandite nell'arco di due anni. Una struttura da romanzo, quasi un meccanismo a orologeria drammaturgico che Woody Allen prende in prestito più da Cechov che dal cinema a lui contemporaneo. Se Tolstoj, in apertura di Anna Karenina, sentenziava che ogni famiglia infelice lo è a modo suo, Allen sembra rispondere costruendo un intero universo su questa massima, trasformando un appartamento dell'Upper West Side nel palcoscenico di un'opera da camera dove le nevrosi, i desideri inconfessati e le crisi esistenziali si muovono come strumenti in una partitura complessa e dissonante.

Il film è un ordito di tre storie principali, intrecciate con la maestria di un arazziere fiammingo. Al centro, come un sole attorno al quale orbitano pianeti inquieti, c'è Hannah (Mia Farrow), la sorella perfetta, l'attrice di successo, la moglie devota, la madre amorevole. La sua stabilità è il perno attorno cui ruota il caos emotivo degli altri, ma è una stabilità che, a uno sguardo più attento, rivela le crepe della passività, di un controllo che è forse una forma di negazione. Il suo mondo viene messo in discussione dal marito Elliot (un magnifico Michael Caine, premiato con l'Oscar), un consulente finanziario che maschera un'anima da poeta romantico e che si strugge per la sorella di Hannah, la più giovane e inquieta Lee (Barbara Hershey). I monologhi interiori di Elliot, che confessano il suo tormento amoroso mentre la vita scorre apparentemente normale, sono puro flusso di coscienza joyciano, un Ulysses da salotto dove il Leopold Bloom di turno non vaga per Dublino ma tra le stanze del suo stesso matrimonio, cercando una via di fuga.

La terza sorella, Holly (una Dianne Wiest straripante, anch'ella da Oscar), è l'antitesi di Hannah: un concentrato di insicurezze, fallimenti professionali (da attrice a ristoratrice a scrittrice) e disastri sentimentali. È il personaggio più "alleniano" del trio, quello la cui traiettoria di caduta e risalita fornisce al film il suo arco di trasformazione più compiuto e, in un certo senso, più speranzoso. La sua rivalità con Hannah è sottile e velenosa, intrisa di un'invidia che è anche una disperata richiesta di approvazione.

Parallelamente, e quasi come un cortometraggio filosofico a sé stante, si snoda la vicenda di Mickey Sachs (Allen stesso), ex marito di Hannah, produttore televisivo ipocondriaco. La sua è una vera e propria danse macabre comica. In seguito a un falso allarme medico, Mickey precipita in un abisso di angoscia esistenziale. La sua ricerca di un senso alla vita in un universo apparentemente muto e indifferente è un capolavoro di commedia metafisica. Tenta la conversione al cattolicesimo, con risultati esilaranti ("Dovrei comprare dei crocifissi, del pane bianco e della maionese?"), si avvicina agli Hare Krishna, ma nessuna fede precostituita riesce a placare il suo terrore cosmico. La sua crisi non è solo personale; è il contrappunto intellettuale alle crisi puramente sentimentali degli altri personaggi. Se Elliot, Lee e Holly combattono con i demoni dell'amore e del desiderio, Mickey lotta direttamente con Dio, o meglio, con la sua assordante assenza.

Qui Allen raggiunge una sintesi perfetta tra i suoi due numi tutelari: Ingmar Bergman e i fratelli Marx. La presenza nel cast di Max von Sydow, attore feticcio di Bergman, nel ruolo di Frederick, l'anziano e misantropo pittore con cui convive Lee, non è un semplice omaggio, ma una dichiarazione d'intenti. Frederick è un concentrato di nichilismo europeo, un artista che disprezza l'umanità e la sua mediocrità, un personaggio uscito direttamente da una pellicola del maestro svedese. Il suo rapporto con Lee, basato su un paternalismo intellettuale che la soffoca, è la rappresentazione dell'arte come prigione esistenziale. È il Bergman più cupo, quello de Il silenzio o Luci d'inverno.

Ma la risposta di Allen a questo abisso non è il silenzio di Dio, bensì la fragorosa anarchia di Groucho. L'epifania di Mickey, il punto di svolta del suo percorso, avviene in un cinema d'essai durante la proiezione di La guerra lampo dei fratelli Marx (Duck Soup). Mentre contempla il suicidio, viene travolto dalla comicità demenziale e liberatoria dei Marx. In quel momento, capisce. Se l'universo non ha un senso, se la morte è certa e la fede è un'illusione, allora l'unica risposta possibile non è la disperazione, ma l'accettazione dell'assurdo. Forse il "senso" è godersi lo spettacolo, ridere del caos, apprezzare i brevi, meravigliosi intervalli di gioia che la vita concede tra un'incertezza e l'altra. È una conclusione profondamente umanista, una sorta di esistenzialismo ottimista che trova la salvezza non in un dogma trascendente, ma nell'immanenza dell'arte popolare, del divertimento, della connessione umana.

La regia di Allen è qui al suo apice di eleganza e fluidità. Coadiuvato dalla fotografia calda e avvolgente di Carlo Di Palma, fa danzare la macchina da presa all'interno degli appartamenti borghesi, con lunghi piani sequenza che legano i personaggi nello stesso spazio fisico mentre le loro menti vagano altrove. La New York del film non è solo uno sfondo, ma un ecosistema culturale pulsante, un mondo di gallerie d'arte, teatri, studi televisivi e ristoranti dove si consumano drammi privati. L'uso della musica, che spazia da Bach a Puccini fino agli standard jazz, non è mai un mero commento, ma un ulteriore strato di significato, un contrappunto emotivo che arricchisce la narrazione visiva.

Hannah e le sue sorelle è forse l'opera in cui Allen riesce a fondere con maggior equilibrio la sua anima comica e quella drammatica, il suo lato da nevrotico cabarettista e quello da cinefilo colto e tormentato. È un film che possiede la struttura corale e la profondità psicologica di un grande romanzo del diciannovesimo secolo, ma filtrata attraverso la sensibilità nevrotica e l'ironia della New York di fine Novecento. Ogni personaggio è imperfetto, ogni relazione è un compromesso, ogni felicità è fragile e temporanea. Eppure, nel finale, che chiude circolarmente il racconto con un'altra cena del Ringraziamento, un barlume di speranza si fa strada. Non è la speranza ingenua del lieto fine, ma la consapevolezza matura che, nonostante tutto – i tradimenti, le paure, l'assenza di risposte definitive –, il semplice fatto di essere qui, insieme, a condividere un pasto, una risata o una vecchia canzone, è forse l'unico miracolo su cui possiamo contare. Un capolavoro di rara intelligenza e commovente umanità.

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