Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Harlan County U.S.A.

1977

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Un film può essere un pugno. Non un pugno metaforico, quello che ti lascia senza fiato per la rivelazione emotiva o l'acume intellettuale, ma un pugno fisico, sporco, che sa di polvere di carbone, sudore e sangue rappreso. Harlan County, U.S.A. di Barbara Kopple è quel pugno. Un'opera che trascende la grammatica del documentario per diventare un evento tellurico, un frammento di realtà così incandescente da bruciare la pellicola 16mm su cui è impresso. Guardarlo non è un atto di visione, ma di testimonianza. Ci si sente complici, intrusi, bersagli. La macchina da presa non è un occhio impassibile, ma un corpo vulnerabile gettato nella mischia, che trema, si nasconde e talvolta, letteralmente, schiva i proiettili.

Siamo nel 1973, nel cuore oscuro dell'Appalachia, Kentucky. I minatori del giacimento di Brookside, di proprietà della Duke Power Company, decidono di affiliarsi al sindacato United Mine Workers of America (UMWA) per ottenere condizioni di lavoro più sicure e un salario dignitoso. La compagnia rifiuta di firmare il contratto. Inizia uno sciopero che durerà più di un anno, un assedio medievale combattuto non con trabucchi e olio bollente, ma con picchetti, fucili da caccia e una determinazione che ha la durezza geologica del carbone stesso. La Kopple e la sua troupe si immergono in questa comunità, vivendo con i minatori, condividendone i pasti frugali, il freddo delle baracche e la paura costante. Il risultato è un capolavoro di cinéma vérité che fa sembrare i lavori coevi dei fratelli Maysles o di D.A. Pennebaker delle educate escursioni etnografiche. Lì dove Pennebaker catturava l'aura quasi divina di Bob Dylan e i Maysles la bizzarra decadenza di Big Edie e Little Edie Beale, la Kopple documenta qualcosa di più primordiale: la lotta per la sopravvivenza.

L'estetica del film è una dichiarazione di intenti. La grana spessa della pellicola, i colori desaturati che virano al grigio della polvere e al marrone del fango, la luce fioca che fatica a penetrare nelle valli e nelle case non sono limiti tecnici, ma il linguaggio visivo del film. È un'America che sembra uscita da una fotografia di Walker Evans o da un romanzo di John Steinbeck, un paesaggio umano e geografico scolpito dalla fatica e dalla povertà sistemica. La Kopple non ha bisogno di una voce fuori campo che spieghi il contesto; il contesto è scritto sui volti dei protagonisti, nelle rughe profonde che solcano la fronte di un anziano minatore affetto da pneumoconiosi, negli occhi fieri e spaventati di un bambino, nella postura combattiva delle donne.

E sono proprio le donne il cuore pulsante e inaspettato del film. In un mondo apparentemente patriarcale, definito dalla mascolinità del lavoro in miniera, emerge un matriarcato indomabile. Figure come Lois Scott, una sorta di Molly Maguires rediviva, diventano le vere generali della battaglia. Organizzano i picchetti, affrontano a muso duro gli sceriffi e i crumiri ("gun thugs", teppisti armati, come vengono chiamati), e in una delle scene più memorabili del cinema documentario, Lois estrae una pistola dalla scollatura, non come minaccia plateale, ma come affermazione pragmatica di chi conosce le regole non scritte di "Bloody Harlan", un luogo la cui storia è intrisa di violenza sindacale. Queste non sono eroine idealizzate; sono donne disperate e coraggiose, le cui voci, spesso stridule e rabbiose, diventano il coro di una tragedia greca che si consuma non a Tebe, ma in un angolo dimenticato del Kentucky.

Il sonoro è un altro protagonista demiurgico. La colonna sonora non è un commento musicale extradiegetico, ma sgorga direttamente dall'anima della comunità. Sono le ballate folk tradizionali dell'Appalachia, cantate a cappella da voci spezzate dalla fatica, che raccontano storie di sfruttamento e di ribellione. Canzoni come "Which Side Are You On?", scritta da Florence Reece, moglie di un sindacalista, durante un precedente sciopero negli anni '30, non fungono da sottofondo: sono il testo stesso del film. Sono archivi orali, manifesti politici, preghiere laiche. In questo universo sinestetico, il suono di un proiettile che fischia nell'oscurità ha lo stesso peso narrativo di un'intera sequenza dialogata in un film di finzione. La Kopple orchestra una sinfonia di suoni autentici: il colpo di tosse cavernoso di un polmone malato, le urla durante gli scontri, il silenzio carico di tensione prima dell'alba sul picchetto.

C'è un livello meta-testuale che rende Harlan County, U.S.A. un'opera di capitale importanza per la storia del cinema. Il film non è solo la cronaca di uno sciopero; è anche la cronaca della sua stessa, pericolosissima, realizzazione. La troupe non è invisibile. La loro presenza influenza gli eventi, offre una forma di protezione ai manifestanti (la gente agisce diversamente davanti a una telecamera) e li espone a un pericolo mortale. Quando i sicari della compagnia sparano contro i minatori, sparano anche contro la troupe. La macchina da presa trema, l'immagine va fuori fuoco: è il cinema che registra la propria mortalità, il proprio coinvolgimento fisico ed etico. La Kopple non si pone mai al di sopra degli eventi, in una posizione di superiorità intellettuale. La sua è una soggettività dichiarata, un'immersione totale che rompe la pretesa di oggettività del documentario tradizionale. Questo non è giornalismo, è qualcosa di più simile all'opera di uno scrittore del New Journalism come Hunter S. Thompson, se Thompson avesse sostituito la follia psichedelica con un'empatia radicale e viscerale.

Inserito nel suo contesto, il film è un figlio legittimo del disincanto degli anni '70. Appartiene allo stesso zeitgeist che ha prodotto la paranoia politica di La conversazione di Coppola e la disperata ribellione anti-sistema di Quel pomeriggio di un giorno da cani di Lumet. Ma mentre quei film riflettevano l'ansia della nazione attraverso la finzione, la Kopple la trovò pulsante e viva nella realtà. Harlan County, U.S.A. è il lato B, quello non romanzato, del Sogno Americano. Un promemoria brutale che, dietro la facciata del progresso e della prosperità, esistono sacche di un'America quasi ottocentesca, dove i rapporti di forza tra capitale e lavoro assomigliano più a una faida tra i clan Hatfield e McCoy che a una moderna negoziazione contrattuale.

Alla fine, dopo un omicidio, l'intervento federale e una tenacia quasi sovrumana, i minatori vincono. Ottengono il loro contratto. Ma la vittoria ha un sapore amaro, esaurito. Il film non si chiude con un trionfalismo hollywoodiano, ma con una quiete stanca, quasi funerea, e la consapevolezza che ogni vittoria è temporanea, ogni diritto conquistato va difeso strenuamente. L'eredità di Harlan County, U.S.A. non risiede nel suo messaggio politico, che pure è potente, ma nella sua forma estetica e nella sua etica cinematografica. È un'opera che dimostra come il cinema possa essere uno strumento non solo di osservazione, ma di partecipazione, un atto di solidarietà che si fa forma d'arte. È un documento storico, certo, ma è soprattutto un poema epico, crudo e lirico, cantato da un coro di volti indimenticabili. Un pugno che, a quasi cinquant'anni di distanza, colpisce ancora con la stessa, devastante, forza.

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