Heat - La sfida
1995
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Regista
Un'epica criminale può essere misurata dalla grandezza dei suoi antagonisti, ma un'autentica tragedia si misura dalla loro somiglianza. Michael Mann, con Heat, non orchestra semplicemente un film di rapine e inseguimenti; scolpisce un monolite crepuscolare sull'asfalto di Los Angeles, un'elegia in blu acciaio dedicata a due uomini speculari, condannati a esistere solo nell'atto della reciproca negazione. Neil McCauley (Robert De Niro) e Vincent Hanna (Al Pacino) non sono semplicemente un ladro e un poliziotto. Sono due sacerdoti di culti opposti che officiano la stessa, identica liturgia: la professione come assoluto, il codice come unica bussola morale in un universo privo di centro.
Il cinema di Mann è sempre stato un'indagine sulla mascolinità professionale, un'ossessione per il dettaglio procedurale che eleva l'azione a forma d'arte. In Heat, questa poetica raggiunge la sua apoteosi. McCauley non è un criminale, è un metodologo del furto. La sua filosofia, "non legarti a niente da cui non puoi sganciarti in trenta secondi netti se senti puzza di sbirri dietro l'angolo", non è un motto da B-movie, ma un sutra esistenzialista. È il distillato di una vita spesa a recidere legami per preservare l'integrità del proprio mestiere. De Niro, all'apice del suo minimalismo implosivo, gli conferisce una gravitas quasi monastica. Il suo McCauley si muove in appartamenti spogli, vestito di grigi impeccabili, un fantasma che abita una città di fantasmi. È un anacronismo vivente, un samurai la cui unica devozione è verso un codice di efficienza e distacco.
Dall'altra parte della barricata, Vincent Hanna è il suo doppio caotico, il suo riflesso in uno specchio deformante. Se McCauley è fredda precisione, Hanna è un uragano di istinti e furia controllata. Pacino, in piena fase espressionista, offre una performance che trascende il naturalismo per diventare un'astrazione della nevrosi. I suoi urli non sono eccessi d'attore, ma le valvole di sfogo di una pressione interna insostenibile, generata dalla stessa, identica ossessione di McCauley. La sua vita privata è un cimitero di relazioni fallite, un paesaggio desolato che fa da controcanto alla sterilità emotiva del suo avversario. Come McCauley, Hanna è definito dal suo lavoro, ne è consumato. "Tutto quello che ho," confessa alla moglie Justine, "è quello che sto inseguendo." Non è un vanto, è una resa.
Il film, infatti, trova il suo cuore pulsante non nelle sparatorie, ma nel silenzio tra uno sparo e l'altro. La Los Angeles di Mann, fotografata da Dante Spinotti con una tavolozza di blu notturni e grigi metallici, non è la città delle palme e del sole. È un paesaggio dell'anima che Edward Hopper avrebbe potuto dipingere se fosse stato ossessionato dalle autostrade a sei corsie e dalle case moderniste abbarbicate sulle colline. È una griglia infinita di solitudini interconnesse, uno spazio liminale dove i personaggi si sfiorano senza mai toccarsi veramente, intrappolati nei loro bozzoli di vetro e cemento. Questa L.A. non è uno sfondo, ma la materializzazione del vuoto interiore dei suoi abitanti, un labirinto esistenziale che riflette la loro alienazione.
E in questo labirinto avviene l'incontro che ha fatto la storia del cinema. La scena della tavola calda. Per la prima volta sullo schermo, De Niro e Pacino si siedono uno di fronte all'altro. Ma Mann disinnesca l'attesa mitologica di uno scontro tra titani e la trasforma in qualcosa di più profondo: una confessione reciproca. Non è un interrogatorio, è un dialogo socratico tra due guerrieri che riconoscono nell'altro l'unica persona al mondo in grado di comprenderli. Discutono di sogni, di donne, della disciplina che li governa, con la pacata rassegnazione di chi sa di essere su una rotta di collisione inevitabile. "Io non so fare altro," dice McCauley. "Nemmeno io," risponde Hanna. In quel momento, la linea tra legge e crimine svanisce, lasciando solo due professionisti che si specchiano nella propria solitudine. È un vertice di scrittura e interpretazione che ha la densità di un'opera teatrale di Pinter e la malinconia di un blues notturno.
Questa dialettica tra professionismo e vita personale si riverbera in tutto il cast di contorno, che è tutt'altro che secondario. Ognuno è una variazione sul tema centrale. Chris Shiherlis (un magnifico Val Kilmer) è un McCauley che non riesce a rispettare la regola del distacco, e la sua relazione tossica con Charlene (Ashley Judd) è una bomba a orologeria destinata a esplodere. Le figure femminili, da Justine Hanna (Diane Venora) a Eady (Amy Brenneman), non sono semplici appendici romantiche; sono le vittime sacrificali, il "danno collaterale" di una guerra combattuta da uomini che hanno barattato l'amore per il brivido della caccia. La scena in cui Charlene, con un gesto della mano, tradisce il marito per salvarlo, è un momento di cinema puro, un intero dramma racchiuso in un gesto silenzioso che dice più di mille parole sulla complessità dei legami umani.
Poi, naturalmente, c'è l'azione. E l'azione in Heat è diversa. La rapina alla banca e la successiva sparatoria per le strade di Downtown L.A. non sono una sequenza, sono un trattato di cinema bellico urbano. Mann, con la sua proverbiale ricerca del realismo, trasforma il centro di Los Angeles in un teatro di guerra. Il sound design è assordante, terrificante nella sua autenticità. I proiettili non fanno "bang", ma producono un eco secco, assordante, che riverbera tra i grattacieli, trasformando l'architettura in un amplificatore di violenza. La coreografia è tattica, precisa, ogni movimento dei rapinatori e dei poliziotti è studiato, credibile. Non c'è eroismo, non c'è gloria; c'è solo una spaventosa, assordante professionalità all'opera. È la logica conclusione del dialogo alla tavola calda: le parole sono finite, ora parlano le armi, con la stessa spietata competenza.
Inserito nel suo contesto, la metà degli anni '90, Heat è un film profondamente crepuscolare. Arriva in un'America post-Guerra Fredda, un'epoca di apparente trionfo capitalistico ma pervasa da un sottile senso di vuoto, il cosiddetto "malessere del benessere". Uomini come Hanna e McCauley sono fossili di un'era precedente, figure archetipiche la cui etica del lavoro, portata all'estremo, non trova più posto in una società pacificata e consumista. Sono cavalieri senza una causa, che creano da soli il proprio campo di battaglia per dare un senso alla propria esistenza. In questo, il film anticipa molta della serialità televisiva del nuovo millennio, da The Sopranos a Breaking Bad, con i suoi antieroi complessi, definiti da un codice professionale che li isola dal resto dell'umanità.
Il finale, ambientato nel campo lungo di un aeroporto, è la catarsi inevitabile. Hanna che insegue McCauley tra le luci di atterraggio è un'immagine primordiale, quasi mitologica: due punti di luce che si muovono in un'oscurità immensa. La resa dei conti è rapida, quasi anticlimatica. Ma il momento che rimane impresso è quello successivo: Hanna che prende la mano di un McCauley morente. Non è un gesto di trionfo, ma di comunione. In quel contatto, il poliziotto non sta onorando il ladro, ma sta tenendo la mano al suo alter ego, all'unica persona che lo ha veramente visto per quello che è. Sta salutando una parte di se stesso. Heat non è la storia di una sfida, come suggerisce il titolo italiano, ma la cronaca di un'identità. È la tragedia di uomini che per essere i migliori in quello che fanno, hanno dovuto smettere di essere uomini. E in quel finale, sulla pista di un aeroporto, sotto un cielo indifferente, Michael Mann ci lascia con la più desolante delle vittorie: quella della solitudine.
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