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Hollywood Party

1968

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Un irresistibile, irrefrenabile risata che dura novantanove minuti. E non si tratta di una metafora iperbolica, bensì della più lucida delle osservazioni su un’opera che trascende la semplice categoria di “commedia” per assurgere a vero e proprio manifesto dell’anarchia creativa.

Hollywood Party è davvero spassoso, a cominciare dalle gag spontanee e apparentemente incontenibili di Peter Sellers e degli altri attori – si narra, e la leggenda qui si fonde con la realtà di una metodologia di produzione audace, che il copione originale di Blake Edwards fosse di sole 12 pagine, un canovaccio esile sul quale l'intero cast, e Sellers in primis, costruì un edificio di ilarità pura attraverso un processo quasi jazzistico di improvvisazione e reazione – per finire agli spunti narrativi che scivolano con grazia e determinazione verso il limite del surreale, sfidando ogni logica convenzionale.

In sostanza, Edwards, in una delle sue collaborazioni più fruttuose e visionarie con il suo attore-feticcio, scioglie le briglie al talento comico di Sellers, ma anche alla propria ineguagliabile abilità nell'orchestrare il caos, realizzando non solo un piccolo capolavoro di ilarità, ma un saggio cinematografico sulla de-costruzione della perfezione e della pretesa. La loro intesa, già affinata nella serie della Pantera Rosa, raggiunge qui un culmine di libertà espressiva, dove la disciplina registica di Edwards si sposa con la genialità proteiforme di Sellers, creando un equilibrio precario e sublime.

La narrazione, come detto, è ridotta all’osso, quasi una sfida alle convenzioni drammaturgiche. Non c'è una trama complessa, non ci sono archi di personaggi tradizionali. C'è un catalizzatore di disastro: una sconosciuta comparsa indiana, Hrundi V. Bakshi, interpretato da un incontenibile Sellers sotto le spoglie di un uomo che è al contempo innocente e implacabile nel suo portare scompiglio. Hrundi, con la sua involontaria goffaggine e la sua disarmante incapacità di conformarsi, combina un guaio dopo l’altro sul set di una produzione americana, "Manuale del Deserto", un film fittizio la cui pomposità è essa stessa bersaglio della satira. La sua è una comicità che nasce dall'alienazione, dall'impatto di un elemento puro e non corrotto in un ambiente saturo di artificio e ipocrisia. La rappresentazione di Bakshi, per quanto oggi possa sollevare obiezioni sul fronte del "brownface", deve essere letta nel contesto della filmografia di Sellers, abituato a trasformarsi in personaggi di ogni etnia e ceto sociale per esplorarne le sfumature e, in questo caso, per sottolineare l'estraneità di un individuo semplice e genuino all'opulenza e alla vuota formalità di Hollywood.

Non contento di aver devastato il set, Hrundi riceve per errore un invito al party del produttore del film, Fred Clutterbuck, e s’intrufolerà in questo sancta sanctorum dell'élite hollywoodiana, continuando con la sua involontaria opera di massacro, passando da una gaffe all'altra con la tenacia di un agente del caos non riconosciuto. Il party diventa una metafora, un microcosmo della falsità e della rigidità del sistema, che Hrundi, con la sua mera esistenza, erode dall'interno.

Intorno a lui, una cornice di personaggi esilaranti, ciascuno a suo modo un archetipo deformato: dal cameriere Levinson che si scola tutti i drink che dovrebbe servire agli ospiti del party, un alcolizzato non così occulto che simboleggia l'incapacità di gestione interna dell'evento, alla starlette bionda che cerca disperatamente di sfondare, al produttore ossessionato dal proprio status. Edwards è un maestro nel popolare la scena con figure che, pur essendo macchiette, sono scolpite con precisione e contribuiscono a creare un affresco caustico e divertente del jet set cinematografico.

E poi una serie di trovate geniali, un vero e proprio campionario di gag che hanno fatto scuola: come elefanti che appaiono improvvisamente da chissà dove, una visione onirica che rompe la verosimiglianza in modo esilarante; o un’invasione di schiuma che, generata da un rubinetto lasciato aperto da Hrundi nel bagno, sommerge progressivamente tutto e tutti, trasformando la villa in un surreale paesaggio lunare, una sorta di purificazione catartica attraverso il delirio; la scarpa galleggiante nella fontana, simbolo della perdita di compostezza; il pollo che dal piatto di Sellers vola, in un movimento preciso e coreografato, in testa alla commensale attonita. È interessante notare come l'umorismo di Edwards non sia solo fisico, ma anche visivo, sfruttando la scala e il contrasto per massimizzare l'effetto comico. Paolo Villaggio, maestro della comicità italiana, farà tesoro di queste e di altre scene di Sellers per il suo leggendario Fantozzi, la cui goffaggine e sfortuna richiamano in modo evidente l'innocente furia distruttiva di Bakshi, confermando l'influenza transnazionale di un umorismo universale. Ma l'eredità di Hollywood Party non si ferma a Villaggio: le sue sequenze di caos crescente, il ritmo incalzante delle gag e l'uso dello spazio per creare disastri a catena hanno ispirato generazioni di registi e comici, dalla serie Una pallottola spuntata alla comicità assurda dei Monty Python. Il finale, con gli invitati che si abbandonano a danze scatenate nel bagno di schiuma, è un inno alla liberazione dalle convenzioni, un trionfo della follia liberatoria.

Insomma, se avete voglia di ridere – di una risata che è al contempo intelligente, disarmante e liberatoria – guardate questo caposaldo della comicità; molte delle gag presenti nel film sono state e saranno imitate ad libitum, ma l'originale conserva una freschezza e una brillantezza ineguagliabili. È un'opera che, al di là della sua superficie leggera, offre una sagace critica alla vacuità di un certo ambiente, un'ode all'imprevisto e una celebrazione del genio comico. Un intramontabile classico della risata, un faro nel genere della commedia che continua a brillare per la sua audacia e la sua irresistibile follia.

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