Movie Canon

The Ultimate Movie Ranking

Hunger

2008

Vota questo film

Media: 0.00 / 5

(0 voti)

Un film asciutto e acuminato, come una stilettata nel buio. Non è solo un film che si guarda, ma che si sente sulla pelle, che si annusa nell'aria greve di disperazione e sporcizia. L'aridità della messa in scena, quasi brutalista, riflette l'ambiente carcerario, ma anche la purezza intransigente della resistenza. È un'opera che rifiuta ogni compiacimento, ogni abbellimento, offrendo un'esperienza cinematografica quasi tattile, una ferita aperta che pulsa senza anestesia.

Sporco, acre, libertario e scevro da ogni fronzolo retorico. Una crudezza che non è fine a sé stessa, ma funzionale a un realismo disarmante, capace di penetrare l'anima dello spettatore senza mediazioni.

Un’opera di una tensione drammatica spontanea che nasce dalla terribile vicenda di Bobby Sands, attivista irlandese dell’IRA, rinchiuso nel tristemente famoso blocco H dagli inglesi. Questa tensione non è costruita con artifizi narrativi, ma scaturisce direttamente dalla nuda e cruda realtà dei fatti, dalle mura imbiancate a calce del Long Kesh, dalla disumanizzazione sistematica operata dal sistema carcerario britannico.

Siamo nel 1981 e il primo ministro inglese Margaret Thatcher ha appena abrogato la legge che considerava prigionieri politici i detenuti nordirlandesi detenuti per crimini politici. L'anno 1981 non è un semplice dato cronologico, ma la cifra di un'epoca di ferro e fuoco, in cui la 'Iron Lady' Margaret Thatcher scelse una linea di inflessibilità politica che avrebbe segnato profondamente la storia del conflitto nordirlandese. La sua decisione di revocare lo status di prigionieri politici ai detenuti repubblicani e lealisti, riducendoli a comuni criminali, fu la scintilla che accese la miccia delle proteste più estreme: la 'dirty protest' e, in seguito, lo sciopero della fame. McQueen ci immerge in questa realtà senza compromessi, facendoci percepire la claustrofobia e la repulsione fisica di chi era costretto a vivere tra i propri escrementi, simbolo di una dignità negata ma ostinatamente rivendicata.

La vita di Bobby Sands tra privazioni feroci e negazione di ogni elementare diritto umano, tra vessazioni e torture di ogni genere, scorre come cristallizzata in una bolla dove spazio e tempo sono annullati. La telecamera di McQueen indugia sui corpi emaciati, sulle mani callose, sui volti scavati dalla sofferenza, trasformando la fisicità della prigionia in un palcoscenico per la battaglia dell'anima. La "bolla" in cui Sands è rinchiuso è un universo di privazioni estreme, dove la violenza psicologica delle guardie, il freddo, la fame, la mancanza di igiene sono gli strumenti di un'annientamento sistematico. Eppure, proprio in questa annullamento del sé fisico, emerge una resistenza spirituale che trascende il puro atto politico.

La sua purezza nella lotta per affrancarsi da una prigione prima di tutto mentale, e poi fisica. Non è solo la lotta per uno status, ma la quintessenza della lotta dell'individuo contro l'oppressione di un sistema, un tema universale che riecheggia in opere come quelle di Robert Bresson, dove la deprivazione materiale diventa via per la trascendenza spirituale, o in certi drammi esistenzialisti che esplorano la libertà ultima dell'essere umano di fronte all'assurdo.

Bobby Sands è il martire raccontato con freddezza, senza cedere al trionfalismo hollywoodiano nè alla facile retorica da blockbuster. McQueen, forte del suo background di artista visivo e performer, non cerca l'eroismo convenzionale. Al contrario, offre una rappresentazione quasi clinica del martirio, destituendolo di ogni aurea mistica per radicarlo nella materia più cruda: il corpo che si consuma. Non c'è glorificazione, ma un'esplorazione meticolosa del dolore e della volontà. In questo senso, 'Hunger' si allinea a una tradizione cinematografica che rifugge il melodramma per abbracciare l'osservazione spietata, come nel cinema di Michael Haneke o, per certi versi, nelle opere più asciutte di Rainer Werner Fassbinder, che scrutavano le cicatrici della società senza timore. La scena, ormai iconica, del lungo dialogo di diciassette minuti tra Sands e il prete, padre Dominic Moran (un Liam Cunningham magistrale), ne è la prova più evidente. Un piano sequenza implacabile, che trasforma il botta e risposta dialettico in un duello intellettuale e morale, in cui ogni parola pesa come un macigno e la macchina da presa non cede di un centimetro, costringendoci a un confronto diretto con la lucida determinazione di Sands.

Da evidenziare la grande prova di Fassbender, attore mai sopra le righe, mai un briciolo di enfasi, ma armoniosamente inserito nel disegno estetico quasi da reportage del giovane promettente regista. La trasformazione fisica di Michael Fassbender per interpretare Bobby Sands è ben più di una mera esibizione attoriale; è un'incorporazione viscerale del personaggio, un atto di mimesi che va oltre la recitazione per sfiorare la performance art. Il suo progressivo dimagrimento, documentato con una brutalità quasi documentaristica, non è mai fine a se stesso, ma serve a rendere tangibile l'erosione della carne, specchio di una volontà che si indurisce quanto più il corpo si indebolisce. Fassbender offre una prova di sottrazione, di presenza silenziosa che parla più di mille dialoghi. La sua è una performance che non cerca empatia a buon mercato, ma comprensione di una scelta estrema, inserendosi perfettamente nella visione autoriale di McQueen che, come già accennato, predilige l'osservazione distaccata ma profonda, quasi entomologica, della condizione umana in contesti estremi. La fotografia di Sean Bobbitt, spesso con inquadrature fisse e lunghi piani sequenza che sembrano immortalare momenti eterni, esalta questa scelta estetica, trasformando ogni cella in un micro-cosmo di resistenza.

Un’opera crudele e gigantesca che consacra Steve McQueen come regista tra i più interessanti dell’ultima generazione. La crudeltà di 'Hunger' non risiede nel compiacimento del dolore, ma nella sua irremovibile onestà, nel coraggio di mostrare la dignità umana anche nelle circostanze più abbiette. È un film che scuote le coscienze, che non offre facili risposte ma pone domande brucianti sulla natura della libertà, del sacrificio e della resistenza. La sua "gigantesca" statura deriva dalla capacità di elevare una vicenda specifica a metafora universale della lotta per l'autodeterminazione, della fragilità e al contempo dell'incrollabile forza dello spirito umano. Con 'Hunger', Steve McQueen non si limita a debuttare nel lungometraggio, ma scolpisce immediatamente il suo nome tra i maestri contemporanei, anticipando quella che sarebbe diventata la sua firma stilistica: l'attenzione quasi scultorea al corpo come veicolo di narrazione, l'esplorazione del trauma e della resilienza, e una capacità rara di trasformare la sofferenza in arte senza mai svuotarla della sua dolorosa autenticità. Un film imprescindibile, che resta impresso nella memoria come un pugno nello stomaco e una carezza all'intelletto, un capolavoro di cinema politico e umano.

Galleria

Immagine della galleria 1
Immagine della galleria 2
Immagine della galleria 3
Immagine della galleria 4
Immagine della galleria 5
Immagine della galleria 6

Commenti

Loading comments...