I compari
1971
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Regista
Un’opera cinematografica può essere talmente vasta, contraddittoria e stratificata da sfuggire alla definizione persino attraverso i suoi stessi titoli. “Giù la testa”, ammonisce l’originale italiano, un mantra di sopravvivenza plebea. “A Fistful of Dynamite”, prometteva il distributore americano, cercando di incastonarlo a forza nella trilogia del Dollaro, quasi come un cugino rumoroso e sovversivo. Ma è il titolo con cui il film è oggi più noto nel mondo anglosassone, “Duck, You Sucker!”, a catturarne l'essenza più profonda: un ghigno beffardo, un avvertimento brutale, un pezzo di Vangelo apocrifo secondo Sergio Leone. È il suo film più sgraziato, il suo capolavoro più sporco, una sinfonia cacofonica di polvere da sparo e malinconia che chiude non solo la sua personale esplorazione del West, ma forse l’idea stessa di rivoluzione come catarsi romantica.
Se C'era una volta il West era un'opera lirica sulla nascita di una nazione, un balletto funebre danzato da archetipi granitici, I Compari è il suo contrappunto picaresco e sguaiato. È un romanzo di formazione al contrario, dove l'innocenza non si perde ma si acquisisce, in un lampo di terribile consapevolezza. Leone abbandona i silenzi metafisici del suo pistolero senza nome per gettarsi nel frastuono di un Messico da operetta tragica, un palcoscenico che sembra uscito tanto da un libro di storia quanto da una tela di Goya. I suoi protagonisti non sono più divinità laconche scolpite nel deserto, ma due frammenti umani, imperfetti e rumorosi. Da un lato Juan Miranda (un Rod Steiger torrenziale, debordante, quasi brechtiano nella sua fisicità), un peone, un bandito, un padre di famiglia la cui unica ideologia è la fame. Il suo sogno non è la libertà del popolo, ma la rapina alla banca di Mesa Verde, sineddoche di un paradiso terrestre fatto di oro e non di ideali. Dall'altro, John "Sean" Mallory (un James Coburn sublime nella sua eleganza crepuscolare), un feniano irlandese, un dinamitardo, un apostolo della rivoluzione che ha perso la fede ed è fuggito nel luogo più lontano possibile per seppellire i suoi fantasmi.
Il loro incontro è uno scontro di universi. Juan, l'uomo orizzontale, radicato alla terra, ai bisogni primari. John, l'uomo verticale, proiettato verso un ideale che lo ha tradito, ossessionato da un passato che riemerge in flashback impressionistici, quasi proustiani. Quei frammenti di memoria di una verde e piovosa Irlanda, tinti di seppia e pervasi dalla melodia struggente di "Sean Sean" di Ennio Morricone, non sono semplice esposizione. Sono ferite nell'anima del film, squarci di cinema d'autore europeo nel cuore di uno Zapata Western. Leone non ci mostra la storia di John, ma il suo trauma, la cicatrice di un tradimento che è al contempo personale e politico, rendendo il suo cinismo non una posa, ma una corazza. È un Don Chisciotte che ha visto i mulini a vento trasformarsi in plotoni d'esecuzione, e ora cerca un Sancho Panza per convincerlo che la realtà è solo fango e sopravvivenza. Ma in questo universo capovolto, è Sancho (Juan) a essere trascinato a forza nel delirio idealista di Chisciotte, diventando un eroe della rivoluzione per puro caso, per una serie di esplosioni calcolate male e di conseguenze non volute.
È qui che Leone sferra il suo attacco più feroce e lucido. I Compari è uno dei più grandi film anti-rivoluzionari mai concepiti, proprio perché ne comprende e ne rispetta l'urgenza umana. La celebre, amarissima invettiva di Juan contro gli intellettuali della rivoluzione — "Quelli che sanno leggere i libri vanno da quelli che non sanno leggere i libri, e gli dicono: 'Oh, oh, qua ci vuole un cambiamento!' [...] e i poveracci che sono morti? Fottuti!" — non è un manifesto reazionario, ma un grido di dolore umanista. Leone, figlio di un'Italia che stava entrando nei suoi anni di piombo, disillusa dalle promesse del '68, guarda alla Storia con lo sguardo del contadino: le rivoluzioni sono piogge che fertilizzano i campi dei padroni, mentre i poveri cristi annegano nel fango. Il film demitizza la lotta armata, la spoglia di ogni alone epico. Le battaglie sono caotiche, la violenza è sorda e brutale, e la morte non è mai gloriosa. La sequenza in cui Juan scopre la sua intera famiglia massacrata nelle grotte è un pugno nello stomaco che annichilisce ogni residuo di commedia. Il primo piano di Steiger che vaga tra i cada dei suoi figli, mentre la colonna sonora di Morricone tace per lasciare spazio a un silenzio assordante, è il vero cuore nero del film: il momento in cui la farsa diventa tragedia greca e il bandito è costretto a indossare la maschera dell'eroe, non per scelta, ma per disperazione.
La produzione stessa del film riflette questa natura ibrida e quasi accidentale. Inizialmente Leone doveva essere solo il produttore, con la regia affidata a Peter Bogdanovich e poi a Sam Peckinpah. Gli attori principali avrebbero dovuto essere Clint Eastwood e Eli Wallach, una reunion de Il buono, il brutto, il cattivo. Ma il destino, o forse l'ego titanico di Leone, ha voluto diversamente. E meno male. Perché con Steiger e Coburn, il film acquista una profondità psicologica che la coppia Eastwood/Wallach non avrebbe potuto restituire. La loro non è l'alchimia di due professionisti della sopravvivenza, ma il legame disfunzionale e struggente tra due anime perdute che si usano a vicenda per poi scoprirsi, troppo tardi, fratelli nel dolore. La loro dinamica è quella di un Vladimiro e un Estragone beckettiani armati di dinamite, in attesa di un Godot che non è una salvezza, ma l'inevitabile appuntamento con la propria fine.
Visivamente, Leone è al suo apice espressionista. Spinge i suoi marchi di fabbrica — i primi piani estremi sui volti sudati e sporchi, i campi lunghissimi che trasformano gli uomini in insetti — verso un barocchismo quasi felliniano, specialmente nelle scene di massa. Ma è nella gestione del tempo e della memoria che si rivela geniale. I flashback irlandesi, con il loro rallenti lirico e la fotografia sovraesposta, non sono solo stilisticamente diversi dal resto del film; rappresentano un altro stato della coscienza, un'utopia perduta che infetta il presente. Questo contrasto tra il Messico arso dal sole e l'Irlanda bagnata dalla pioggia è il correlativo oggettivo della scissione interiore di John, un uomo che vive simultaneamente in due mondi, nessuno dei quali può più offrirgli rifugio.
Alla fine, I Compari è il testamento di Leone sul Western e, per estensione, sul mito. Se la Trilogia del Dollaro aveva creato un'icona immortale e C'era una volta il West ne aveva celebrato il funerale, questo film ne profana la tomba. Dimostra che dietro ogni eroe c'è un uomo spaventato, dietro ogni rivoluzione c'è un'illusione, e dietro ogni mito c'è una menzogna raccontata abbastanza bene da diventare vera. L'ultima inquadratura, con John che sorride ai suoi fantasmi mentre la dinamite che porta addosso sta per esplodere, è una delle chiusure più potenti e ambigue della storia del cinema. Non è un'accettazione eroica del sacrificio, ma forse la liberazione finale da un peso insopportabile, quello della memoria e della speranza. "Duck, you sucker!" non è più solo il suo motto da dinamitardo. Diventa un monito esistenziale. La Storia sta per esploderti in faccia. Abbassa la testa. Ma non puoi sfuggirle. È un'opera imperfetta, forse, ma la sua grandezza risiede proprio nelle sue crepe, da cui emerge una verità umana più lancinante e onesta di mille epopee senza macchia.
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