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Io, Daniel Blake

2016

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Regista

Vincitore della Palma D’oro 2016 a Cannes e di numerosi altri premi, questo film corona il grande impegno culturale e politico di Ken Loach, regista britannico da sempre sensibile a tematiche di ingiustizia sociale, di oppressione e di disparità che fanno della classe più umile una sorta di parafulmine su cui si abbatte ogni genere di aberrazione del cosiddetto Stato di Diritto.

I film di Ken Loach sono da sempre un veicolo di perforanti critiche ad un sistema squilibrato, ingiusto e oppressivo. Non si tratta mai di mero didascalismo politico, quanto piuttosto di un'immersione quasi documentaristica nella quotidianità di esistenze marginali, spesso invisibili agli occhi della società benestante. La sua estetica, radicata nella tradizione del realismo sociale britannico – dal Free Cinema al "kitchen sink drama" – si manifesta attraverso una regia asciutta, essenziale, che rifugge ogni barocchismo stilistico per focalizzarsi sulla verità cruda dei personaggi e delle loro circostanze. L'apporto fondamentale di Paul Laverty, sceneggiatore storico di Loach, è evidente nella capacità di tessere narrazioni intime e personali che risuonano con problematiche universali, elevando le vicende individuali a metafore collettive. L'uso frequente di attori non professionisti o di volti poco noti contribuisce a quella sensazione di autenticità che è la cifra distintiva del suo cinema, un cinema che non spettacolarizza il dolore, ma lo espone con dignità.

Una delle frasi più celebri di Ken Loach esprime perfettamente la sua idea di cinema: “Un film non è un movimento politico, nè un partito, e neppure un articolo di giornale. E’ solo un film. E il meglio che può fare è aggiungere la sua voce al pubblico sdegno per ogni ingiustizia”. Questa dichiarazione rivela la modestia programmatica di un cineasta che, pur avendo un'agenda politica cristallina, comprende i limiti del proprio mezzo, ma anche la sua forza ineludibile come cassa di risonanza per le grida inascoltate. Loach è il regista degli invisibili, di chi non ha voce, di chi è emarginato per la propria condizione sociale, o per il proprio colore della pelle, o semplicemente perchè sfruttato da un meccanismo economico che stritola la manovalanza in funzione del consolidamento del capitale. Egli non si limita a mostrarci queste figure, ma le eleva a testimoni e, in alcuni casi, a martiri di un sistema che non vuole o non sa riconoscere la loro dignità intrinseca.

Daniel Blake diviene così un simbolo di opposizione, di furente ribellione verso questa insopportabile pressione che schiaccia dall’alto gli strati più bassi della società, un uomo qualunque che leva il suo grido di battaglia. Non è un eroe di un'epopea, ma l'incarnazione di una resistenza quotidiana, la cui forza risiede proprio nella sua normalità e nella disarmante semplicità delle sue richieste: essere trattato con rispetto. Daniel Blake è un rispettato carpentiere di Newcastle. Arrivato alla soglia dei 60 anni viene colpito da una grave patologia cardiaca che lo rende inabile al lavoro. Inizia così il suo calvario burocratico per richiedere il sussidio statale determinato dal suo stato di malattia.

Un calvario che, in un'epoca di politiche di austerità post-crisi finanziaria del 2008, diviene la metafora bruciante di un'Inghilterra (ma per estensione, di un Occidente) che ha scelto di tagliare i ponti con i suoi cittadini più fragili, trasformando il welfare state da rete di sicurezza a labirinto punitivo. Daniel precipita così nell’affilata cremagliera della burocrazia inglese, un perverso meccanismo dove l’utente viene rimpallato da un ufficio all’altro dopo interminabili attese telefoniche, dove viene umiliato da visite mediche degradanti che mettono in discussione la sua stessa percezione del dolore, dove viene sommerso da innumerevoli moduli da compilare, spesso digitali, in un'epoca in cui la digitalizzazione dei servizi pubblici crea un divario incolmabile per chi è anziano, privo di accesso o di competenze informatiche. La descrizione Kafkaiana di questo sistema, che sembra esistere solo per auto-perpetuarsi e sfiancare il cittadino, è uno dei colpi più duri inferti da Loach. Non c'è un volto al male, ma un'organizzazione anonima e disumanizzante, dove ogni sportello, ogni operatore, è solo un ingranaggio di un meccanismo più grande e spietato.

Daniel si rende presto conto che nell’attesa che arrivi l’agognato sussidio dovrà procurarsi un lavoro in nero per poter sopravvivere, sebbene questo comporti il rischio di una dura sanzione in caso venga scoperto. La sua dignità di lavoratore onesto, di cittadino rispettoso delle regole, viene compressa e calpestata dalle stesse istituzioni che dovrebbero tutelarlo, spingendolo ai margini della legalità per la sacrosanta necessità di nutrirsi. In uno dei suoi pellegrinaggi da un ufficio statale all’altro Daniel incontra Katie, ragazza madre di due figli, anch’essa preda della feroce burocrazia. Le loro storie, seppur diverse per età e background, si specchiano l'una nell'altra, rivelando la natura sistemica dell'oppressione. Il film non risparmia allo spettatore le scene più atroci, come quella in cui Katie, sopraffatta dalla fame e dalla vergogna, apre una lattina di fagioli e la mangia freneticamente in un banco alimentare, impacchettata con la dignità infranta, sotto lo sguardo impotente e addolorato di Daniel. È un momento che trafigge lo stomaco e l'anima, rendendo palpabile l'abietto degrado a cui il sistema spinge gli individui.

Daniel si batte per lei, perchè riconosce in lei una vittima proprio come lui, una persona alla deriva su cui il sistema si abbatte impietosamente. Questo atto di empatia, di solidarietà, è il cuore pulsante del film, un antidoto alla tossicità dell'indifferenza burocratica. Il rapporto paterno tra i due è la chiave di lettura del film, meravigliosa opera di avvicinamento di due anime del tutto diverse ma accomunate dall’aspra contingenza. L'affetto, il mutuo soccorso, la riscoperta di un senso di comunità – temi cari a Loach, spesso celebrati nei suoi film – emergono qui come l'unica, indomita resistenza all'individualismo coatto imposto dalle logiche economiche dominanti.

Un film che prima di tutto commuove con la forza della sua umanità, con la potenza di un linguaggio che fa della solidarietà e della fraterna cooperazione tra gli uomini l’unico baluardo di civiltà. In questo senso, "Io, Daniel Blake" si inserisce in una nobile tradizione del cinema di denuncia sociale, da Umberto D. di Vittorio De Sica – con la sua struggente e disarmante ritratto di un anziano alle prese con la solitudine e la crudeltà di un mondo indifferente – ai film dei fratelli Dardenne, che con la loro estetica realistica e il focus sugli emarginati hanno tracciato un percorso simile nel cuore dell'Europa. La potenza del film di Loach risiede nella sua capacità di farci sentire la freddezza dell'algoritmo sulla pelle dei protagonisti, di farci percepire l'eco delle risposte automatiche e dei dinieghi impersonali come veri e propri schiaffi. La scena finale, con l'emblematica orazione funebre, non è solo la conclusione di una storia individuale, ma un atto d'accusa devastante, una catarsi amara che trasforma il lutto in un grido collettivo.

Daniel è un eroe del nostro tempo, un invisibile ombra che ci passa accanto tra migliaia di altri esseri umani, una luce che pulsa sempre più sfolgorante in un contesto di indifferenza, di totale apatia. Daniel siamo noi, come vorremmo essere, come dovremmo essere: persone che hanno a cuore altre persone che si trovano in difficoltà, uomini e donne che si oppongono strenuamente alla moderna deriva di ogni più elementare sentimento di umana collaborazione. Un'opera che non si limita a raccontare una storia, ma che ci spinge a riflettere sul significato stesso di "civiltà" in un'era di crescente disuguaglianza e disumanizzazione, ricordandoci il valore inestimabile della dignità e della compassione.

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