I Figli degli Uomini
2006
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Regista
Alfonso Cuarón, insieme a Alejandro Iñárritu e al geniale Guillermo del Toro – la santa trinità di talenti che ha ridefinito l'identità cinematografica messicana – fa parte della nouvelle vague che ha saputo infondere nuova linfa vitale al cinema d'autore, conquistando proseliti tra tutti i cinefili del mondo e elevando il racconto visivo a nuove vette. Questa rinascita, profondamente radicata in un umanesimo che non teme di confrontarsi con le oscurità dell'esistenza, si manifesta in Cuarón con una maestria tecnica e una profondità tematica che lo rendono unico.
Il suo lavoro per la realizzazione di quest’opera è stato di altissimo livello, un tour de force che ne ha consacrato la visione, tanto che il film ha fatto incetta di premi in tutto il mondo: dal prestigioso British Academy Film Award per la Migliore Fotografia, ai Bafta per il Miglior Montaggio, fino al Premio Osella a Venezia per la migliore fotografia, segno inequivocabile del suo impatto visivo e narrativo.
Children of Men è una storia ambientata in un futuro distopico non troppo remoto (il 2027 nel film, non il 2022, un dettaglio che rende la sua premonizione ancora più agghiacciante se pensiamo alle crisi migratorie e sociali attuali), tratto da un romanzo della scrittrice P.D. James del 1992. La scelta di un futuro così prossimo non è casuale: essa amplifica il senso di urgenza e rende la distopia non una fantasia lontana, ma una cupa proiezione delle nostre ansie più recondite. Il film si distingue per le atmosfere cupe e oppressive, paesaggi di un grigio post-atomico in cui la mancanza di luce è una costante, ma non solo. È una distopia che si annida nell'ordinario, nel degrado urbano e nella disperazione quotidiana che pervade ogni singolo frame.
La fotografia di Emmanuel Lubezki, uno dei collaboratori più fidati di Cuarón e un maestro indiscusso nell'uso della luce naturale e dei piani sequenza, è infatti uno degli elementi dell’opera che colpisce di più. Non è semplicemente una bella fotografia; è del tutto complementare alla narrazione, un vero e proprio personaggio muto che amplifica l’angosciante senso di oppressione che vivono i protagonisti. Lubezki, con la sua inconfondibile palette di colori spenti e la predilezione per fonti di luce naturali o scarsissime, crea un mondo dove la speranza stessa sembra un lusso negato, un'eco visiva della sterilità che affligge l'umanità. Si pensi all'influenza dei maestri fiamminghi o del Caravaggio nella loro capacità di plasmare la realtà attraverso il contrasto tra luce e ombra, ma qui applicata a una modernità cruda e senza filtri. Il mondo di Children of Men è un dipinto in chiaroscuro, dove ogni barlume di luce assume il peso di un miracolo, quasi un atto di ribellione contro l'oscurità imperante.
La storia è quella di una scomparsa annunciata: l’umanità è destinata a morire a causa dell’infertilità che ha colpito ogni donna sul pianeta. Tutte le donne sono infatti da tempo diventate sterili a causa di un misterioso morbo che si è diffuso rapidamente nell’intero globo e che ha causato la scomparsa totale dei bambini. L’umanità è quindi destinata ad eclissarsi, e i governi dei vari Paesi hanno preso misure drastiche contro la psicosi collettiva dell’estinzione, attuando legge marziale e controlli ferrei, militarizzando la società e trasformando ogni confine in una fortezza inespugnabile per i "fugees", i disperati che cercano rifugio in una Gran Bretagna isolata ma altrettanto agonizzante. Questa visione di un'Europa dilaniata da crisi migratorie e repressione brutale, con campi profughi che ricordano i peggiori incubi orwelliani, non è solo un elemento di cornice; è il cuore pulsante di una critica sociale che risuona con assordante attualità, ben oltre la sua data di produzione.
Ma una nuova speranza appare all’orizzonte: una donna è rimasta incinta e toccherà ad un attivista dei diritti umani, Theo Faron (interpretato con una disarmante e amara umanità da Clive Owen), trasportarla sana e salva verso una nuova libertà, fuori dal giogo oppressivo del Governo. Il loro viaggio sarà un periplo attraverso una nazione dove violenza e sopraffazione sono i due elementi che governano il tessuto sociale, un'odissea moderna che evoca echi di romanzi picareschi e allegorie religiose, dove la salvezza non è garantita ma è un'impresa disperata, permeata da un'intrinseca fiducia nel potere redentivo della vita.
Memorabile è la scena in cui gli attivisti stanno trasportando la donna verso un luogo sicuro e sono improvvisamente attaccati da una banda di uomini selvaggi che compare dai boschi circostanti. Qui Cuarón e Lubezki raggiungono il culmine della loro maestria tecnica e narrativa. Inizia un meraviglioso piano sequenza che documenta il violento attacco, un balletto macabro di camera e coreografia che si estende per oltre quattro minuti, immergendo lo spettatore direttamente nel caos e nella brutalità dell'assalto. La macchina da presa segue l’azione con un'enfasi quasi soggettiva, spostandosi all’interno dell’auto e inquadrando ora l’interno, ora l’esterno, ma sempre rimanendo all’interno dell’abitacolo come se fosse uno degli occupanti, un testimone impotente e terrorizzato. Questa scelta stilistica elimina qualsiasi sensazione di distacco, costringendo il pubblico a confrontarsi con la cruda, implacabile realtà della violenza. Quando una delle donne che viaggiava nell’auto viene colpita da un colpo di pistola al collo, la sequenza diviene agghiacciante nel suo crudo realismo; l’inquadratura transita nervosamente sui visi sgomenti dei componenti del gruppo per passare a quello diafano della donna morente, in un'agonia quasi insostenibile.
Questo non è un mero sfoggio tecnico; è una dichiarazione di intenti. Cuarón utilizza il piano sequenza non per stupire, ma per saturare lo spettatore di un'esperienza sensoriale e emotiva totalizzante, per trasmettere il terrore e la vulnerabilità dei personaggi in tempo reale, senza l'artificio del montaggio a spezzare la tensione. È una tecnica che il regista ha perfezionato, da Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban fino a Gravity e Roma, ma che qui raggiunge una visceralità quasi senza precedenti, rendendo ogni respiro, ogni sparo, ogni grido un colpo al cuore dello spettatore. La scena dell'imboscata in auto è solo un assaggio della grandezza che caratterizza l'intero film, culminando nella celebre sequenza della battaglia nel campo profughi, un piano sequenza di oltre sei minuti che è un vero capolavoro di coordinazione e di immersione nel caos bellico, un'esperienza che va oltre il semplice intrattenimento per diventare un'indagine profonda sulla resilienza e sulla disperazione umana. Children of Men non è solo un film di fantascienza distopica; è un'opera d'arte che parla del nostro presente, un monito inquietante e, paradossalmente, un inno alla fragile, indomita speranza.
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