I Gangsters
1946
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Regista
In uno squallido alberghetto di quart’ordine un uomo attende con disillusa rassegnazione l’arrivo dei sicari. Non è una semplice attesa, ma una lucida, quasi stoica accettazione del proprio destino, un atto di resa che precede la morte, impregnato di una malinconia palpabile che la macchina da presa di Robert Siodmak cattura con disarmante efficacia. La fredda precisione dei dialoghi, l'impenetrabile calma dell'imminente vittima, Ole Andreson, soprannominato "lo Svedese", sono dettagli che scolpiscono nella memoria dello spettatore un'immagine di fatalismo ineluttabile, preludio a un'indagine tanto noir quanto esistenziale.
Inizia con questa folgorante messa in scena uno dei più affascinanti racconti di Hemingway, la cui lapidaria prosa, intrisa di una filosofia dell'omissione – la celebre "teoria dell'iceberg" – trova in Siodmak un interprete visivo d'eccezione. Il regista, con una maestria che trascende la semplice trasposizione, riesce a rendere tangibile l'implicito, a suggerire mondi interiori e drammi sommersi attraverso la sola forza delle immagini e l'atmosfera. L'eleganza brutalista della narrazione hemingwayana, dove il non detto pesa quanto il detto, si specchia nella grammatica cinematografica del noir, fatta di ombre dense, silenzi eloquenti e volti che celano segreti quanto ne rivelano.
Siodmak lavora egregiamente sulla materia hemingwayana puntando l’obiettivo della sua cinepresa sulla figura del protagonista, sondandone ogni recondita emozione e restituendola sotto forma di pura essenzialità, spogliata di ogni inutile orpello formale. Il suo approccio è quello di un cesellatore, capace di distillare l'essenza tragica di un'esistenza. La profonda influenza dell'Espressionismo tedesco, corrente di cui Siodmak era stato un pioniere prima di emigrare a Hollywood, si manifesta in ogni inquadratura, in ogni gioco di luce e ombra che non è mero abbellimento, ma elemento strutturale della narrazione psicologica. Il chiaroscuro non è solo stile, ma un linguaggio che esprime la corruzione morale, la confusione tra bene e male, la natura stessa del destino che si addensa attorno ai personaggi. È un balletto di luci e tenebre che avvolge lo Svedese, rivelando il suo passato frammentato e la sua intrinseca, disperata solitudine.
Lo stesso Hemingway ammise che questo film era l’unico che aveva veramente colto lo spirito di una sua opera. Una dichiarazione che suona come un'investitura, un riconoscimento della capacità di Siodmak di preservare l'integrità tematica e tonale del racconto originale, senza cedere alle sirene della spettacolarizzazione gratuita o della didascalia emotiva. A differenza di altre, spesso fallimentari, trasposizioni delle sue opere, I Gangsters non tradisce la secchezza, la violenza sottintesa e l'impietoso fatalismo che sono marchi di fabbrica di Hemingway, ma li esalta, li rende viscerali attraverso un'estetica che si fa quasi tattile. Il senso di ineluttabilità, la rassegnazione di fronte a un destino già scritto, vengono resi con una potenza visiva che eguaglia, se non supera, la forza evocativa della parola scritta.
Dopo l’uccisione dello Svedese, atto che serve da fulcro e non da epilogo, inizierà il paziente ordito dei flashback che metteranno a nudo la vita dell’uomo e il motivo della sua tragica fine. Questa struttura narrativa non lineare, un classico espediente del film noir, diventa qui uno strumento di indagine quasi forense, un viaggio a ritroso nelle pieghe della memoria e del tradimento. L'investigatore, il tenace ma disilluso Riordan (interpretato da un eccellente Edmond O'Brien), non è il tipico eroe risolutore, ma piuttosto un archeologo del dolore altrui, che assembla i frammenti di un'esistenza spezzata. Ogni flashback, una tessera di un mosaico tragico, rivela strati di inganni, ambizioni infrante e amori maledetti, fino a comporre il quadro completo di una caduta inesorabile. Il tempo, nel noir, è spesso un labirinto da cui non si può fuggire, e qui lo è più che mai, con il passato che inesorabilmente predetermina il presente e sigilla il futuro.
Un film che segna indelebilmente il genere noir, consolidandone molti dei tropi più iconici e elevandone la cifra stilistica, con un grande Burt Lancaster al suo folgorante debutto cinematografico. La sua interpretazione dello Svedese, combinando una fisicità imponente con una vulnerabilità quasi infantile, incarna perfettamente l'archetipo dell'anti-eroe destinato, un pugile la cui ultima lotta è contro un destino implacabile. Al suo fianco, una sensazionale Ava Gardner veste i panni di Kitty Collins, la femme fatale per eccellenza: una creatura di bellezza accecante e doppiezza letale, la cui mera presenza promette sia la salvezza che la dannazione. È lei il fulcro magnetico della tragedia, l'elemento dirompente che devia il corso della vita dello Svedese verso un abisso senza ritorno. E su tutto, un ancor più grande regista nel ruolo di Demiurgo delle emozioni, un invisibile burattinaio che gioca sagacemente con la morbosa curiosità dello spettatore, conducendolo con mano ferma attraverso il labirinto di un'anima perduta e le periferie oscure di una città senza speranza. La colonna sonora di Miklós Rózsa, con i suoi temi nervosi e malinconici, amplifica ulteriormente questa sensazione di disperazione crescente, fissando I Gangsters non solo come un capolavoro del noir, ma come una pietra miliare nella rappresentazione della fragilità umana di fronte alle correnti avverse del destino e della tentazione.
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