Io sono ancora qui
2024
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Regista
Con questo film di Walter Salles ci troviamo di fronte ad un'opera di una complessità e di una delicatezza quasi inimmaginabili, un thriller politico che si dissolve lentamente in un poema sulla memoria, un'indagine sulla brutalità della Storia che si trasforma in una meditazione sulla fragilità della coscienza. Il grande regista brasiliano firma qui il suo capolavoro più ambizioso e straziante, un'opera sulla memoria e sul trauma vissuto da un'intera Nazione.
La narrazione si muove su due piani temporali e, apparentemente, due storie distinte, che si riveleranno essere i frammenti di un'unica, spezzata anima. Iniziamo in Brasile, nel 1971: un paese nella morsa sempre più stretta di una dittatura militare. La vita di Eunice, una giovane insegnante, e di suo marito, un pittore dissidente, viene distrutta da un arbitrario atto di violenza di Stato: lui viene prelevato dai militari e diventa uno dei tanti desaparecidos. Da questo momento, la vita di Eunice è costretta a reinventarsi; da moglie e intellettuale, si trasforma in una silenziosa e ostinata pasionaria della memoria, una donna che passa il resto della sua esistenza a lottare per non far svanire il ricordo del marito nell'oblio imposto dal regime.
Poi, con un'ellissi tanto brusca quanto poetica, il film ci trasporta decenni dopo, in un'altra dimensione. Qui, l'opera diventa un'indagine fenomenologica sulla dissoluzione della coscienza, il ritratto di un anziano pittore europeo che lotta contro l'avanzare dell'Alzheimer per completare il suo ultimo autoritratto. E qui, lo spettatore inizia a capire il gioco geniale e commovente del film: questo secondo racconto non è una storia parallela. È il mondo interiore di Eunice. Anziana e afflitta dalla demenza, la sua mente, nel tentativo disperato di aggrapparsi al ricordo del marito pittore, ha fuso la sua memoria con la biografia immaginaria di un artista europeo che entrambi ammiravano. Il suo trauma personale si è travasato in un archetipo artistico.
Questo secondo livello del film è un'opera di una bellezza austera, quasi scultorea. La fotografia si ispira palesemente ai ritratti del tardo Rembrandt: la luce sembra emergere dall'oscurità, illuminando la polvere nell'aria, la trama della tela, le crepe sul volto del protagonista. La narrazione non è lineare, ma segue i sentieri imprevedibili e frammentari della memoria del pittore, che sono in realtà i frammenti della memoria di Eunice. Si muove tra il presente, in cui la sua mano trema ma la sua volontà è di ferro, e i flashback, che non sono semplici ricordi, ma vere e proprie allucinazioni, dove le figure del passato (la giovane Eunice, i fantasmi della dittatura) entrano ed escono dalla sua stanza come visitatori da un altro tempo.
L'opera dialoga magnificamente con altri grandi film sulla vecchiaia e sulla memoria, ma ne sovverte le premesse. Se Amour di Haneke mostrava la devastazione fisica della fine della vita con una lucidità quasi clinica, e The Father di Zeller ci faceva sperimentare la confusione labirintica della demenza dall'interno, il film di Salles sceglie una terza via: quella della resistenza artistica e politica. Il suo protagonista, che sia il pittore fittizio o Eunice che lo immagina, usa l'atto del dipingere, l'unico linguaggio che gli è rimasto, come un'ancora per non essere spazzato via dalla marea dell'oblio. Ogni pennellata è un atto di memoria, un tentativo di dire "io sono ancora qui". È un film di una potenza emotiva straziante, un'opera perfetta nella sua esecuzione. Il titolo assume così un doppio, potentissimo significato: è il grido di battaglia del dissidente politico che si rifiuta di essere cancellato dalla Storia, ed è il sussurro disperato di una coscienza che lotta per non svanire nella nebbia della demenza.
Salles, in questo modo, crea un'opera che è al contempo un omaggio al cinema politico latinoamericano degli anni '60 e '70, con la sua denuncia delle dittature e dei desaparecidos, e un'opera che si inserisce nella tradizione del grande cinema d'autore europeo sulla memoria dove trauma storico e memoria personale si fondono. La genialità sta nel far collassare questi due mondi. La lotta politica di Eunice per la memoria storica di suo marito si trasforma, nella sua vecchiaia, in una lotta neurologica per la sua memoria personale. L'atto di ricordare diventa l'ultimo, supremo atto di resistenza. Il film ci suggerisce che dimenticare un crimine di Stato e dimenticare il volto di chi amiamo a causa di una malattia sono due facce della stessa, terribile tragedia: la perdita dell'identità.
Il finale è un momento di una bellezza e di una tristezza indescrivibili. Vediamo l'anziana Eunice, in un raro momento di lucidità, di fronte a una tela bianca. Le sue mani, che abbiamo visto tremanti e incerte nel corpo del pittore immaginario, ora si muovono con una determinazione ritrovata. Inizia a dipingere. Non vediamo il processo, ma alla fine la macchina da presa ci mostra il quadro finito: non è un autoritratto in stile Rembrandt, ma un ritratto vibrante, quasi espressionista, del volto sorridente del suo giovane marito, così come era nel 1971. In quell'ultimo, eroico atto di creazione, è riuscita a sconfiggere sia la dittatura che la malattia, riportando alla luce, per un istante, la verità. È la dimostrazione che l'arte non è solo uno strumento per raccontare la memoria, ma è la memoria stessa. Per questa sua architettura narrativa audace e commovente, per la sua profonda riflessione politica e per la sua capacità di trovare una bellezza straziante nel cuore della tragedia, questo film riesce a commuovere e a risvegliare le coscienze dal torpore dell'oblio. E non è poco, no, in definitiva non lo è affatto.
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