I Saw the Devil
2010
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Regista
La vendetta, nel cinema, è quasi sempre un patto faustiano siglato con inchiostro simpatico. L'eroe si danna l'anima, attraversa il suo inferno personale, ma la fiamma purificatrice del castigo finale finisce per rendere la scrittura visibile, per ristabilire un ordine cosmico, per concedere, se non la pace, almeno una catarsi allo spettatore. L'eroe ha pagato un prezzo, sì, ma il mostro è stato sconfitto e il mondo, in qualche modo, è di nuovo in asse. Kim Jee-woon, con I Saw the Devil, prende questo contratto secolare tra narratore e pubblico, lo appallottola e lo usa per accendere la pira funeraria su cui brucia ogni residuo di consolazione morale. Questo non è un film sulla vendetta; è un film sulla sua anatomia, una dissezione clinica e spietata del processo attraverso cui l'uomo che caccia un mostro diventa esso stesso un oggetto di studio per teratologi.
La premessa ha la semplicità ingannevole di una tragedia greca: Kyung-chul (un Choi Min-sik che trascende la mera recitazione per incarnare un principio di entropia morale) è un serial killer di una brutalità quasi casuale, un buco nero etico che divora vite senza scopo né rimorso. Una delle sue vittime è la fidanzata incinta di Kim Soo-hyun (Lee Byung-hun), un agente speciale dei servizi segreti. La reazione di Soo-hyun non è la ricerca di giustizia, ma la formulazione di un teorema della sofferenza. Invece di catturare o uccidere Kyung-chul, decide di intraprendere un sadico gioco del gatto col topo, o più precisamente, del gatto con un topo a cui viene spezzata una zampa, poi rilasciato, poi ricatturato per spezzargliene un'altra. Lo tortura, lo umilia, lo lascia andare solo per poter replicare l'agonia, trasformando la vita del killer in un inferno in terra che rispecchi il vuoto che ha lasciato dentro di lui.
È qui che il film di Kim Jee-woon si eleva dalla pletora di revenge thriller sudcoreani – un filone di cui, insieme a Park Chan-wook e Na Hong-jin, è uno degli indiscussi maestri – per entrare in un territorio filosofico ben più desolato. Se Oldboy era un'opera barocca, una sinfonia di dolore orchestrata attorno a un mistero quasi mitologico, I Saw the Devil è il suo opposto speculare: un requiem minimale, gelido, proceduralmente crudele. Non c'è un'eziologia del male da scoprire, nessun grande disegno da svelare. Kyung-chul è il male come dato di fatto, come condizione ontologica. Non ha un passato traumatico che lo giustifichi, non ha una filosofia contorta. Quando un suo "collega" cannibale gli chiede perché faccia ciò che fa, la sua risposta è un silenzio sprezzante. È il Giudice Holden di Meridiano di Sangue di McCarthy, un agente del caos la cui esistenza non necessita di spiegazioni, ma solo di constatazione. Choi Min-sik lo interpreta con una fisicità terrificante, un misto di goffaggine animalesca e lampi di intelligenza predatoria, il suo volto una maschera perennemente indecisa tra il ghigno e la smorfia di dolore.
Dall'altra parte dello specchio, Lee Byung-hun offre una performance magistrale nella sua sottrazione. Il suo Soo-hyun è una statua di dolore che si crepa lentamente, rivelando il mostro che vi era imprigionato dentro. All'inizio, la sua è una furia controllata, chirurgica, quella di un professionista che applica le sue abilità a un fine personale. Usa la tecnologia, la strategia, le risorse dello Stato per una vendetta privatissima. Ma ad ogni "rilascio" di Kyung-chul, qualcosa in lui si spezza irreparabilmente. Il gioco perverso che ha ideato non solo fallisce nel suo intento di infliggere una sofferenza equivalente alla sua, ma finisce per generare altra sofferenza collaterale, coinvolgendo vittime innocenti e trasformando la sua crociata in una scia di sangue di cui è indirettamente responsabile. È la più letterale e terrificante applicazione dell'adagio nietzschiano: per combattere il mostro, Soo-hyun non si limita a guardare nell'abisso, ma vi si trasferisce, arredandolo con gli strumenti della sua antica professione, ora convertiti a un nuovo, oscuro sacerdozio.
Il genio di Kim Jee-woon sta nel modo in cui orchestra questa catabasi. Regista dalla raffinatezza estetica quasi ineguagliata, filma l'orrore più indicibile con un'eleganza formale che ne amplifica il disturbo. La fotografia è pulita, levigata, le scene d'azione sono coreografate con una precisione ballettistica. Una lotta in un taxi sotto la pioggia battente diventa un pezzo di cinema d'azione mozzafiato, ma il suo esito è di una brutalità rivoltante. Questo contrasto tra la bellezza della forma e l'abiezione del contenuto non è un vezzo stilistico, ma il cuore pulsante del film. Ci costringe a confrontarci con la nostra stessa fascinazione per la violenza, a interrogarci sul piacere estetico che possiamo provare di fronte a una rappresentazione così perfetta della crudeltà. Kim non ci offre la via di fuga di una camera a mano traballante o di un montaggio caotico che mascheri l'impatto; al contrario, ci inchioda alla poltrona e ci obbliga a guardare, con una chiarezza cristallina, le conseguenze di ogni colpo, di ogni taglio.
Meta-testualmente, I Saw the Devil è una critica feroce al genere a cui appartiene. Soddisfa tutti i requisiti superficiali del revenge movie – il torto iniziale, l'eroe implacabile, il villain detestabile – per poi sabotarne sistematicamente le fondamenta morali. Lo spettatore, condizionato da decenni di cinema, inizia il viaggio tifando per Soo-hyun. Vogliamo che Kyung-chul soffra. Ma il film, con ogni nuova atrocità, alza la posta, ponendoci una domanda sempre più scomoda: "È questo che volevi? Ti basta? Vuoi ancora di più?". La spirale di violenza diventa così asfissiante che la catarsi si trasforma in nausea. Il confine tra il giustiziere e il carnefice si dissolve non in una zona grigia, ma in una macchia di nero assoluto. Il chiasmo è completo: Soo-hyun diventa metodico e spietato come un killer, mentre Kyung-chul, per la prima volta nella sua vita, inizia a provare qualcosa che assomiglia alla paura, un'emozione che lo rende, paradossalmente, quasi più umano.
Il contesto della produzione è fondamentale. Uscito nel 2010, il film si inserisce nel culmine di un'ondata di cinema sudcoreano che ha esplorato i recessi più oscuri della psiche umana e della società con una libertà e un'audacia senza precedenti. In una nazione che ha vissuto una modernizzazione vertiginosa, portandosi dietro le cicatrici di dittature e conflitti, questo cinema "estremo" può essere letto come l'esorcismo di un trauma collettivo, un modo per affrontare demoni che non possono essere placati con narrazioni consolatorie. I Saw the Devil è forse il punto di non ritorno di questa tendenza, un'opera così nichilista e intransigente da essere stata pesantemente censurata persino in patria, prima di essere distribuita.
Il finale è una delle conclusioni più potenti e desolate della storia del cinema. L'ultimo atto di vendetta di Soo-hyun è un congegno diabolico, una punizione di una crudeltà quasi poetica che colpisce il killer nell'unico punto che non sapeva nemmeno di avere. Ma non c'è trionfo. La macchina da presa si sofferma su Soo-hyun che cammina lungo una strada desolata, il suo volto stravolto da un misto di riso e pianto, un singhiozzo che è l'urlo di un'anima che si è appena resa conto di essersi persa per sempre. Ha vinto. Ha distrutto il suo nemico. Ma il diavolo che ha visto non era solo quello riflesso negli occhi di Kyung-chul; era quello che ha pazientemente costruito dentro di sé, pezzo per pezzo, con ogni atto di violenza. La vittoria è indistinguibile dalla dannazione totale. I Saw the Devil è un capolavoro scomodo, un'esperienza cinematografica che non si limita a intrattenere o a spaventare, ma che ci interroga, ci processa e ci lascia svuotati, a contemplare la bellezza terribile di un incubo perfetto.
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