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I segreti di Brokeback Mountain

2005

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Media: 4.57 / 5

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Regista

Le montagne, nel cinema americano, sono una promessa. Sono la frontiera di John Ford, lo spazio incontaminato da plasmare con la volontà e la polvere da sparo, il confine ultimo tra la civiltà e la selvaggia, magnifica indifferenza della natura. Sono il teatro del Mito. Poi arriva Ang Lee e, con la quieta devastazione di un sisma sottomarino, ci dice che no, le montagne non sono una promessa. Sono un segreto. E la frontiera più invalicabile non è quella geografica, ma quella sigillata dietro i denti serrati di un uomo. I segreti di Brokeback Mountain non è un western, ma il suo fantasma; è l'elegia funebre per un genere che ha sempre celebrato un'idea di mascolinità tanto monolitica quanto, in fondo, fragile.

Siamo nel Wyoming, 1963. Il paesaggio, catturato dall'obiettivo di Rodrigo Prieto con una tavolozza che sembra rubata a un dipinto della Hudson River School, è immenso, sublime nel senso kantiano del termine: tanto magnifico da essere terrificante. In questo vuoto primordiale si incontrano due frammenti di umanità alla deriva, Ennis Del Mar (un Heath Ledger la cui performance è una scultura di traumi repressi) e Jack Twist (un Jake Gyllenhaal che vibra di un'inguaribile, tragica speranza). Vengono assunti per pascolare pecore sulla fittizia Brokeback Mountain, un Eden temporaneo e isolato dal mondo. Lee ci immerge nel ritmo lento e ripetitivo del loro lavoro: il montare della tenda, il fuoco, la sorveglianza delle pecore, il silenzio. Un silenzio che è quasi un personaggio, denso di tutto ciò che non si può dire nel mondo di sotto. Quando la passione esplode tra loro, in una notte gelida e riscaldata dalla whiskey, non è rappresentata come una scelta o una rivelazione gioiosa, ma come una forza della natura, ineluttabile e violenta quanto una bufera di neve. È un atto che accade a loro, non da loro, un'eruzione tellurica in due anime sismicamente instabili.

Qui risiede il primo, geniale cortocircuito del film. Ang Lee prende l'iconografia dell'uomo di frontiera, l'archetipo stoico e autosufficiente forgiato da decenni di cinema, e ne svela il nucleo di disperata solitudine. Ennis, in particolare, è una figura quasi atavica. Parla a monosillabi, con una voce che sembra dover risalire da un pozzo profondo, e il suo corpo è una corazza perennemente contratta, come se si aspettasse un colpo da un momento all'altro. Ledger non recita Ennis, lo abita con una mimesi fisica che ha del miracoloso. È l'uomo di Hemingway catapultato in una tragedia greca, incapace di articolare il proprio dolore se non attraverso scatti di violenza. Jack, al contrario, è il sognatore, l'unico che osa dare un nome a quella "cosa" che li lega, che immagina un futuro impossibile, un piccolo ranch dove poter vivere insieme. È la forza propulsiva e tragica del racconto, il Sisifo che continua a spingere il masso del loro amore contro la montagna dell'impossibilità.

La loro storia, che si dipana lungo vent'anni di incontri clandestini, di "viaggi di pesca" che sono fughe da vite costruite sulla menzogna, assume i contorni di un mito privato. Brokeback Mountain diventa un luogo dell'anima, una non-località proustiana dove il tempo si ferma e possono essere sé stessi, per poi tornare a valle, alle loro mogli, ai figli, alla recita di una normalità che li consuma. Il film, basato su un racconto breve e affilato come un rasoio di Annie Proulx, ha l'abilità straordinaria di espandere quella prosa scarnificata in un'epica lirica, senza mai tradirne lo spirito brutalista. La sceneggiatura di Larry McMurtry e Diana Ossana, che impiegarono anni a trovare un regista e dei finanziamenti, è un capolavoro di economia narrativa. Ogni dialogo, ogni sguardo, ogni silenzio è carico di un peso enorme, di anni di non detto. La celeberrima frase di Ennis, "If you can't fix it, you gotta stand it" ("Se non puoi rimediare, devi sopportare"), è il suo epitaffio, il mantra di un'intera esistenza vissuta in apnea.

È impossibile non pensare, guardando l'uso che Lee fa del paesaggio, a Terrence Malick. Come in I giorni del cielo, la natura è testimone muta e impassibile delle piccole, disperate vicende umane. Ma se in Malick la natura è una sorta di entità panteistica, quasi divina, in Brokeback Mountain essa è il riflesso dello stato interiore dei protagonisti: vasta, solitaria, bellissima e crudele. È l'unico spazio abbastanza grande da contenere un amore che la società considera mostruoso. Quando Ennis e Jack sono sulla montagna, la macchina da presa si prende il suo tempo, li inquadra in campi lunghissimi, minuscole figure in un panorama sconfinato. Quando tornano in città, le inquadrature si fanno più strette, claustrofobiche, gli interni sono soffocanti, i colori si desaturano. È un linguaggio visivo che comunica la prigionia meglio di mille parole.

Il film, uscito nel 2005, fu un evento culturale. Etichettato sbrigativamente come "il film dei cowboy gay", divenne un campo di battaglia simbolico, un test di Rorschach per un'America che stava faticosamente rinegoziando i propri confini identitari. La sua famigerata sconfitta agli Oscar contro Crash rimane una delle pagine più discusse e sintomatiche nella storia dell'Academy, la prova che forse, nel 2006, un'opera di tale portata emotiva e di così radicale messa in discussione del mito americano era ancora un passo troppo lungo. Ma il giudizio storico, per quanto interessante, rischia di oscurare la vera grandezza del film, che non è politica, ma universale. Brokeback Mountain non parla tanto dell'omosessualità, quanto della natura devastante del segreto e della tragedia dell'amore inespresso. È una storia che potrebbe essere ambientata nella Verona di Shakespeare o nella Russia di Pasternak. La sua forza sta proprio nell'aver scelto il contesto più improbabile, il cuore del mito virile americano, per raccontare una storia di vulnerabilità e di desiderio negato.

La colonna sonora di Gustavo Santaolalla, con quel tema di chitarra acustica, scarno e malinconico, è il battito cardiaco del film. Pochi accordi ripetuti come un ricordo che non se ne va, che punteggiano la narrazione senza mai essere invadenti, diventando la melodia stessa della nostalgia e della perdita. È il suono di uno spazio vuoto.

Alla fine, ciò che rimane è una scena di una potenza iconica quasi insostenibile. Ennis, nel camper di Jack dopo la sua morte, scopre le loro due camicie, una dentro l'altra, appese a una gruccia, nascoste dietro la sua. È un'immagine che trascende la narrazione e diventa un simbolo quasi religioso, una reliquia di un amore che è esistito solo in quei brandelli di tessuto, in quel nascondiglio dentro un nascondiglio. Quando Ennis le porta a casa e le appende nel suo armadio, mettendo la sua camicia a protezione di quella di Jack, e mormora "Jack, I swear...", non sta compiendo un gesto di memoria, ma un atto di integrazione. Sta finalmente facendo spazio, dentro il suo mondo asfittico, a quel pezzo di sé che ha combattuto per tutta la vita. Non è una consolazione, né tantomeno un lieto fine. È solo una constatazione, la più straziante di tutte: che l'unica casa possibile per il loro amore è il buio di un armadio. E in quel buio, Brokeback Mountain smette di essere un film e diventa parte della nostra geografia emotiva, una vetta silenziosa e indimenticabile nel panorama del cinema contemporaneo.

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