Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Ida

2013

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Media: 3.50 / 5

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Un'inquadratura può contenere l'assenza di Dio, o forse la sua schiacciante, silenziosa presenza. L'intero cinema di Paweł Pawlikowski sembra votato a esplorare questa vertiginosa ambiguità, e in nessun luogo lo fa con la stessa folgorante, ascetica perfezione di Ida. Girato in un bianco e nero che non evoca nostalgia ma piuttosto una scarnificazione della memoria, e incorniciato in un quasi-quadrato formato 4:3 che sembra imprigionare i suoi personaggi, il film è un'opera di rigore quasi bressoniano, un road movie dell'anima che attraversa le cicatrici mai rimarginate della storia polacca.

La grammatica visiva di Pawlikowski, elaborata con i direttori della fotografia Łukasz Żal e Ryszard Lenczewski, è la prima, sconcertante dichiarazione d'intenti. I personaggi sono quasi sempre relegati nella parte inferiore dello schermo, sovrastati da un vuoto opprimente: cieli grigi, soffitti spogli, pareti scrostate. Questo spazio negativo, questo headroom esasperato, non è un vezzo stilistico; è il protagonista invisibile del film. È il peso della storia, il silenzio di Dio dopo Auschwitz, il fardello di un passato non detto che incombe su ogni istante. Come nei dipinti di Vilhelm Hammershøi, dove gli interni desolati e le figure di schiena suggeriscono mondi interiori impenetrabili, così le composizioni di Ida ci costringono a contemplare non ciò che è mostrato, ma ciò che è deliberatamente omesso, ciò che preme dall'alto e dai lati.

La storia, nella sua essenzialità, ha l'andamento di una parabola o di un racconto morale medievale catapultato nell'abisso del XX secolo. Anna, una giovane novizia cresciuta in un convento nella Polonia del 1962, sta per prendere i voti perpetui. La madre superiora, tuttavia, la spinge a incontrare l'unico parente in vita che le sia rimasto: una zia di nome Wanda. L'incontro è uno scontro di universi. Da un lato, la purezza quasi ultraterrena di Anna (una straordinaria Agata Trzebuchowska, il cui volto è una tela su cui si proietta ogni emozione repressa); dall'altro, la disillusione alcolica e sensuale di Wanda (un'indimenticabile Agata Kulesza), un'ex procuratrice stalinista nota come "Wanda la Sanguinaria", ora giudice cinico che annega nel fumo e nella vodka il ricordo dei suoi trionfi e dei suoi compromessi.

È Wanda a sganciare la bomba che fa deflagrare il mondo protetto di Anna: il suo vero nome è Ida Lebenstein, è ebrea, e i suoi genitori furono uccisi durante l'occupazione nazista. Inizia così il loro viaggio, un pellegrinaggio laico alla ricerca delle ossa dei loro cari, sepolti in una foresta da qualche parte nella campagna polacca. Questo viaggio non è solo un'indagine sul passato familiare, ma un duello filosofico e spirituale tra due visioni del mondo, due modi di sopravvivere al trauma. Ida rappresenta la fuga nella fede, un tentativo di trascendere l'orrore della storia attraverso un ordine superiore. Wanda incarna l'immersione totale nella storia, l'accettazione nichilista che non esista alcun ordine, solo caos, potere e oblio. Il loro dialogo è un contrappunto costante tra il sacro e il profano, tra il silenzio contemplativo e il rumore del mondo.

Pawlikowski non fa sconti a nessuno dei due percorsi. La fede di Ida non è presentata come una soluzione facile, ma come una disciplina ferrea, una scelta quasi inumana di fronte all'evidenza della crudeltà umana. Il cinismo di Wanda, d'altra parte, non è semplice disfattismo, ma la conseguenza logica di chi ha visto troppo, di chi ha partecipato attivamente alla costruzione di un'utopia fallita (il comunismo) sulle ceneri di un genocidio. In questo, la loro dinamica ricorda certi personaggi di Dostoevskij, come l'ingenuo Alëša e lo scettico Ivan Karamazov, impegnati in un dibattito eterno sull'esistenza del male e sulla possibilità della grazia. Ma qui il dibattito non è astratto; è inciso nella terra, nel fango, nelle ossa che alla fine vengono dissotterrate.

Il film gestisce il contesto storico con una maestria ellittica che è la sua più grande forza. L'Olocausto e i successivi crimini del regime comunista non sono mostrati in flashback didascalici, ma aleggiano come fantasmi. Sono presenti nel contadino che occupa la casa degli Lebenstein, nel suo sguardo che mescola colpa e paura, nella confessione smozzicata che rivela una verità indicibile: non furono i tedeschi a uccidere la famiglia di Ida, ma i vicini polacchi, per avidità e antisemitismo. Pawlikowski, con coraggio e senza intenti accusatori universali, tocca il nervo scoperto della complicità locale, un tema a lungo tabù. Ma il suo non è un atto di accusa, bensì una constatazione del groviglio inestricabile di vittimismo e colpevolezza che costituisce la memoria collettiva di una nazione. Wanda stessa, che ha condannato a morte i "nemici dello stato", non è forse parte di un'altra catena di violenza? Il film non offre risposte, ma pone domande terribili sulla natura della giustizia e del perdono in un mondo che sembra averli banditi.

In questo universo di grigi morali e visivi, irrompe un elemento di rottura: la musica. Non una colonna sonora extradiegetica, ma la musica che i personaggi ascoltano. Dal "Largo" di Bach che risuona in una chiesa, si passa al jazz febbrile di John Coltrane che un giovane sassofonista (Dawid Ogrodnik) suona in un locale di Łódź. "Naima", "Equinox": non sono brani casuali. Rappresentano la seduzione del mondo, della sensualità, della vita profana. Per Ida, questo incontro è una tentazione, una crepa nel suo mondo monolitico. Per un breve, folgorante interludio, Ida sperimenta l'alternativa. Indossa i tacchi e il vestito della zia, si scioglie i capelli, beve, balla e passa una notte con il musicista. È il suo what if, il suo momento di potenziale fuga.

Ma la catarsi del film è duplice e tragicamente divergente. Wanda, dopo aver portato a termine il suo compito, aver dato sepoltura ai resti del figlio e aver visto la nipote confrontarsi con la propria identità, sceglie di non poter più sopportare il peso del ricordo. Il suo suicidio, freddo e metodico, è l'atto finale di chi ha esaurito ogni illusione. È una sequenza agghiacciante, ripresa con la stessa distanza impassibile con cui la macchina da presa ha osservato tutto il resto. Ida, al contrario, dopo aver assaggiato il mondo, compie la scelta opposta. Il suo ritorno al convento non è più la decisione di un'anima innocente e ignara, ma una scelta consapevole, ponderata. La splendida inquadratura finale la mostra mentre cammina lungo una strada di campagna, questa volta occupando il centro dell'inquadratura, con passo deciso. Non sappiamo se la sua fede sia più forte o se sia semplicemente l'unica zattera a cui aggrapparsi nel naufragio della storia. Ma ora è una scelta sua.

Ida è un'opera che agisce per sottrazione, un capolavoro distillato fino all'essenza. Rifiuta ogni facile psicologismo, ogni spiegazione verbosa, ogni catarsi emotiva convenzionale. Come in un racconto di Flannery O'Connor, la grazia è un evento terribile, quasi violento, che irrompe in un mondo imperfetto. Con la sua durata di appena 82 minuti, il film ha la densità di un romanzo e la potenza iconica di una serie di fotografie sacrali. È un'opera che ci ricorda come il grande cinema non abbia bisogno di urlare per scuotere le fondamenta della nostra coscienza. A volte, basta il silenzio, un'inquadratura rigorosa e il volto di una donna che cammina verso un destino che ha, finalmente, scelto per sé.

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