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Il Buono, il Brutto e il Cattivo

1966

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Una prova di forza quella di Sergio Leone, un film che sradica letteralmente i canoni classici del western per restituire un’opera di una vividezza, di una forza impressionante. Se il western americano, con figure totem come John Ford e i suoi eroi moralmente integerrimi, aveva scolpito nel marmo l'epos della frontiera, Leone ne frantuma le sculture, cospargendo la polvere su un paesaggio morale desolato e brutale. La sua è una decostruzione radicale, un'operazione iconoclasta che, lungi dal distruggere il genere, lo eleva a nuove, inattese vette di complessità e lirismo. È la nascita di un nuovo archetipo, quello dello "spaghetti western", un genere che travalica la semplice etichetta geografica per affermarsi come una vera e propria corrente estetica e narrativa.

Giunto al terzo capitolo della cosiddetta “Trilogia del Dollaro”, dopo “Per un Pugno di Dollari” (1964) e “Per qualche Dollaro in più” (1965), Leone realizza quella che è la sua idea di cinema: mettere in scena il concetto di mito greco, ossia porre al centro della storia l’uomo con i suoi vizi intollerabili e le sue meschinità. L'eroe fordiano, portatore di civiltà e giustizia, lascia il posto all'antieroe leoneano, creatura del deserto e della sete, mossa unicamente dalla ricerca del profitto e della sopravvivenza. Questi non sono semplici fuorilegge, ma figure archetipiche di una condizione umana primordiale, quasi pre-morale, in cui la civiltà è un miraggio e l'istinto animale la sola guida. La loro epopea non è quella della conquista o della redenzione, ma della perenne e squallida lotta per un pugno di dollari.

Tre personaggi si contendono un bottino e lo inseguono attraverso la guerra civile americana, un contesto storico tutt'altro che casuale. La Guerra di Secessione non è un mero sfondo, ma una forza primordiale che incarna la stessa violenza, il caos e l'insensatezza che animano i protagonisti. Il conflitto fratricida tra Nord e Sud riflette la brutalità senza scopo che permea ogni interazione tra i tre, trasformando il campo di battaglia in un'estensione della loro psiche corrotta. Leone non si limita a mostrarci la guerra; ce la fa sentire, ce la fa respirare, con la sua polvere, il suo sangue e i suoi orrori, sottolineando l'assurda futilità della vita e della morte in un'epoca senza ideali.

Ognuno dei 3 ha dei conti in sospeso con gli altri 2, un intreccio di inganni e opportunismo che definisce la loro coesistenza precaria. Il Biondo (Clint Eastwood), enigmatico e laconico, incarna il "buono" solo per contrasto, ma la sua moralità è ambigua quanto le ombre del deserto. Egli consegna Tuco (Eli Wallach), l'indomito "brutto" dalla verve caustica, alle autorità per intascare la taglia, poi si apposta e spara col suo fucile alla corda che dovrebbe impiccare Tuco, quindi se ne va in cerca di un nuovo sceriffo e di una nuova taglia da intascare. Questa routine, ripetuta con cinica precisione, è il simbolo del loro legame parassitario: una danza mortale di fiducia tradita e salvezza condizionata, in cui il pericolo è sempre un pretesto per un guadagno. È una simbiosi anomala, quasi un matrimonio infernale, fondato sulla reciproca utilità e sulla consapevolezza che nessuno dei due può davvero fidarsi dell'altro, eppure ha bisogno dell'altro per sopravvivere.

L’incontro con l’oscuro pistolero Sentenza (Lee Van Cleef), il glaciale "cattivo" la cui crudeltà è pari solo alla sua efficienza, cambierà le loro vite, introducendo un terzo vertice di pura e inarrestabile malevolenza. Sentenza non ha debolezze né dilemmi morali; è una macchina di distruzione, l'incarnazione della violenza indiscriminata e della sete di potere. La sua presenza eleva la posta in gioco, trasformando la ricerca del tesoro in una discesa agli inferi, un'allegoria della caduta dell'uomo in un mondo senza più punti di riferimento etici.

Revisione e sublimazione del genere western attraverso la cartina tornasole della caratterizzazione barocca dei personaggi. Leone si avvale di primi piani esasperati che trasformano i volti in paesaggi solcati dalla fatica e dalla disperazione, di sguardi che sono più eloquenti di mille dialoghi. Ogni ruga, ogni cicatrice, ogni granello di polvere su un cappello contribuisce a scolpire personaggi che sono al contempo iperreali e mitici. L'estetica barocca si manifesta nella grandiosità delle scene di battaglia, nelle sequenze silenziose cariche di tensione, e soprattutto nella colonna sonora di Ennio Morricone, che non si limita ad accompagnare le immagini, ma diventa essa stessa voce narrante, elemento drammaturgico imprescindibile. Le sue melodie atipiche, fatte di fischi, armoniche vocali, percussioni dissonanti e l'iconico tema di Tuco, trascendono la funzione di mero commento musicale per farsi espressione intrinseca dell'anima dei personaggi e della desolazione degli spazi. La musica di Morricone è un contrappunto geniale alla parsimonia dialogica, riempiendo i silenzi di significati profondi e anticipando le emozioni con una potenza quasi operistica.

La forza espressiva non nasce né dalla storia lineare né dalle grandi emozioni messe in campo nel senso tradizionale di un melodramma, ma dal realismo brutale dei personaggi che animano la narrazione. Non c'è spazio per le idealizzazioni romantiche o le traiettorie eroiche. Questi uomini sono sporchi, sudati, affamati, spinti da impulsi primari. Il lavoro di Leone è dunque mitopoietico: mettere in scena l’odore della carne, il calore del sangue, la sensazione di umido sulla pelle, il sapore amaro della polvere. È un cinema che si appella ai sensi più che alla ragione, che avvolge lo spettatore in un'esperienza tattile e viscerale. Le lunghe inquadrature, i campi lunghissimi che inghiottono figure umane quasi insignificanti di fronte alla vastità del paesaggio, si alternano a primissimi piani che sondano l'abisso degli occhi, delle bocche contratte dal dolore o dalla smorfia di un sorriso beffardo. È questo contrasto tra il macro e il micro, tra l'epico e l'intimamente umano (o disumano), che conferisce a "Il Buono, il Brutto e il Cattivo" la sua atemporalità e il suo inesauribile fascino, rendendolo non solo un capolavoro del western, ma un monumento del cinema mondiale.

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