Il Cielo Sopra Berlino
1987
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Regista
Wim Wenders al rientro dall’esperienza americana, culminata nel trionfo di Paris, Texas, riabbraccia la madrepatria con un film che è (anche) un emozionante atto d’amore per Berlino, ma che al contempo segna un ritorno, una sorta di "Heimkehr" non solo geografica ma spirituale. Dopo l'ampio respiro e la solitudine dei paesaggi americani, Wenders si immerge in una Berlino ancora divisa, sospesa in un limbo storico e psicologico, conferendole una risonanza quasi mitologica.
La città, con la sua umbratile aura elegiaca, intrisa di ferite ancora aperte e di una resilienza commovente, è infatti teatro di una delicata vicenda in bilico tra poesia e misticismo. È un palcoscenico di macerie e speranza, dove il Muro, pur invisibile per gran parte della narrazione angelica, aleggia come simbolo della frammentazione, amplificando il senso di un'umanità che cerca connessione e significato. L'estetica del film, con l'alternanza tra il bianco e nero etereo degli angeli e il colore vibrante del mondo umano, non è un mero virtuosismo stilistico, ma una dichiarazione programmatica: il bianco e nero, quasi pittorico, ci immerge nella dimensione della pura osservazione, priva della tangibilità delle emozioni umane, mentre l'esplosione cromatica della vita incarnata esalta la bellezza e il caos del "sentire".
Sia chiaro che il misticismo di Wenders è un sentimento laico, profondamente immanente, che nasce dalla corporeità, dal fluire delle vicende umane, dallo scarto poetico che si annida nel quotidiano più banale. Non è la ricerca di un'ascensione trascendente, ma piuttosto la celebrazione di un'epifania terrena, quasi un satori zen colto nella concretezza dell'esistere. È un umanesimo dolente eppure luminoso, che indaga la condizione umana non attraverso dogmi o rivelazioni, ma tramite l'empatia profonda e l'osservazione acuta. In questo senso, il film si allinea a una tradizione che va da Rilke – con le sue Elegie duinesi e la contemplazione del rapporto tra angeli e condizione umana – fino a certa poesia esistenzialista, dove il sacro si manifesta nel profano, e l'assoluto nell'effimero.
Berlino è una città popolata da migliaia di angeli che vegliano sulle umane sorti dall’alto, invisibili agli uomini, percepiti unicamente dai bambini – simbolo di un'innocenza e una purezza di sguardo che non ha ancora imparato a filtrare la realtà attraverso la ragione adulta. Questi angeli non sono entità giudicanti o salvifiche in senso tradizionale; sono piuttosto osservatori empatici, custodi della memoria collettiva, sussurriatori di conforto. Agiscono come una sorta di coscienza invisibile dell'umanità, assorbendo le storie, i pensieri, le gioie e i dolori che fluttuano nell'aria della metropoli.
Seguiremo due di loro, Damiel e Cassiel, due figure complementari che incarnano diverse sfaccettature di questa esistenza angelica. Si scambiano le proprie esperienze, riflettendo sugli uomini che hanno aiutato, a cui sono stati vicini in un attimo di dolore, che hanno sfiorato con la loro impalpabile presenza. Cassiel è forse più pragmatico, più ancorato al suo ruolo di testimone eterno, mentre Damiel, con una malinconia sottile e crescente, confessa a Cassiel che si sente imprigionato da questa loro incorporeità. Vorrebbe sentire il peso della gravità, il morso del freddo, il sapore di un caffè, le cicatrici del tempo. Vorrebbe sentirsi gravare dal peso del reale, assumersi il fardello e la bellezza dell'esistenza come fanno tutti gli uomini che vede ogni giorno, desiderando ardentemente di partecipare alla finitezza, alla passione, alla sofferenza che rendono l'essere umano così vulnerabile e, al contempo, così sublime.
Struggenti alcune scene, come quella in cui Damiel, avvicinandosi a un uomo ferito da un incidente stradale, gli prende teneramente il capo tra le mani e instilla in lui lampi della memoria, piccole cose passate che fanno bene all’anima e la rasserenano. Non è un miracolo divino, ma un gesto di empatia radicale, un'infusione di umanità nell'ora più buia, quasi un'attivazione del potere curativo della memoria stessa. È in questi momenti che si rivela la "spiritualità laica" di Wenders: una profonda fede nell'intrinseca dignità e nella capacità di resilienza dell'uomo, anche di fronte all'insensatezza del dolore.
Vale la pena, per abbracciare il lirismo che pervade ogni fotogramma di quest’opera, riportare le parole di Damiel, un catalogo di sensazioni e percezioni che incarna il suo desiderio di tangibilità: “Come fui sul monte e arrivai al sole dalla nebbia della valle/ il fuoco ai bordi del pascolo / le patate nella cenere / il capannone delle barche sul lago / la Croce del Sud /l’Oriente lontano / il grande Nord / l’Ovest selvaggio / il grande lago dell’Orso / le isole Tristan da Cunha / il delta del Mississippi / Stromboli / le vecchie case di Charlottenburg / Albert Camus / la luce del mattino / lo sguardo del bambino / andare ad abbeverarsi alla cascata / le macchie delle prime gocce di pioggia / il sole / il pane e il vino / il saltello / pasqua / le venature dei fogli di carta / l’erba che si muove / i colori delle pietre / i ciottoli sul letto del ruscello / la tovaglia bianca all’aria aperta / il sogno della casa nella casa / il vicino che dorme nell’appartamento accanto / la quiete della domenica / l’orizzonte / la luce della stanza nel giardino / volare di notte / andare in bici senza mani / la bella sconosciuta / mio padre / mia madre / mia moglie /mio figlio”. Questa litania non è una semplice elencazione, ma una poesia sensoriale, un'ode all'ordinario che diventa straordinario quando osservato con la fame di chi ne è privato. È il distillato del desiderio di Damiel di esperire il mondo non come un'entità astratta, ma come una sinfonia di sensazioni, odori, sapori, e, soprattutto, legami umani. Ogni elemento è un tassello di quel mosaico complesso e meraviglioso che è l'esperienza umana, celebrata in tutte le sue sfumature.
Nella frenesia della vita di ogni giorno, un’esistenza spesso distratta da una costante corsa in avanti, soltanto un’entità amica e invisibile – o forse, più correttamente, la capacità di riscoprire in noi stessi quello sguardo angelico e insieme infantile – ci può riportare alla dimensione poetica della quotidianità. Ci invita ad apprezzare quelle cose a cui magari non abbiamo fatto caso, quelle piccole meraviglie spesso celate nell'ombra dell'abitudine, ma che con il loro lungo sospiro ci riportano ad un delicato stato di calma, in bilico tra quintessenza e felicità. Il Cielo Sopra Berlino non è solo un film, ma una meditazione sulla percezione, sull'incarnazione e sull'incessante ricerca di significato in un mondo frammentato, un'opera senza tempo che continua a sussurrarci l'importanza di sentire.
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