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Il cigno nero

2010

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Media: 4.50 / 5

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Un corpo che si spezza per diventare arte. Non la grazia eterea della danza, ma il suono di un osso che si incrina sotto sforzo, il lamento sordo di un tendine che si stira oltre il limite, il respiro affannoso di chi sacrifica la propria carne sull'altare della performance perfetta. È questa la partitura sensoriale su cui Darren Aronofsky orchestra Il cigno nero, un'opera che, sotto le mentite spoglie del dramma ambientato nel mondo del balletto, nasconde l'anima pulsante e deforme di un body horror cronenberghiano, innestato sul telaio di un thriller psicologico che Polanski avrebbe firmato col sangue.

Il film si presenta come un dittico quasi speculare con il precedente lavoro del regista, The Wrestler. Se là avevamo il corpo massiccio e martoriato di Mickey Rourke, un gladiatore della "low art" che immolava se stesso per l'ultimo applauso di un pubblico plebeo, qui abbiamo l'esile, quasi ectoplasmatico, guscio di Nina Sayers (una Natalie Portman in stato di grazia, la cui metamorfosi fisica è essa stessa un atto performativo), una vestale dell' "high art" consumata dalla medesima, identica ossessione: la perfezione. Aronofsky, con un'intuizione da entomologo dell'animo umano, ci mostra che la dinamica sacrificale è la stessa. Cambia il palco – dal ring unto e insanguinato al palcoscenico levigato del Lincoln Center – ma non la sostanza della tragedia. L'arte, in ogni sua forma, esige un tributo di carne, un'offerta di sanità mentale.

La narrazione si avvita attorno alla psiche di Nina come un grand jeté che si tramuta in una caduta mortale. Ballerina tecnicamente impeccabile ma emotivamente gelida, Nina è l'incarnazione del Cigno Bianco. Vive in una prigione pastello governata da una madre (una superba e terrificante Barbara Hershey) che è un misto di custode e carceriere, proiettando sulla figlia le proprie ambizioni frustrate e infantilizzandola in una stasi perpetua. Il suo mondo è un carillon di perfezione ossessiva, un universo di specchi che non riflettono ma giudicano. L'opportunità di interpretare il doppio ruolo di Odette/Odile nel Lago dei cigni di Čajkovskij diventa il catalizzatore della sua disintegrazione. Per essere il Cigno Nero, le viene detto dal suo mefistofelico coreografo Thomas Leroy (Vincent Cassel, perfetto nel ruolo del Pigmalione sadico), deve "perdersi", abbandonarsi all'istinto, alla sensualità, al caos.

E il caos assume le forme sinuose e conturbanti di Lily (Mila Kunis), la nuova ballerina della compagnia, incarnazione di tutto ciò che Nina non è: libera, sfrontata, imperfetta ma viva. Da qui, Aronofsky orchestra una sinfonia del Doppio che attinge a piene mani dall'archetipo del Doppelgänger, una figura che ossessiona la letteratura da Dostoevskij a Stevenson. Lily è reale o è una proiezione della psiche scissa di Nina, l'ombra junghiana che emerge per reclamare il suo spazio? Il film, magistralmente, si rifiuta di dare una risposta univoca. Ci intrappola nella percezione febbrile e inaffidabile di Nina, usando una grammatica visiva che è puro cinema della soggettività. La macchina da presa a spalla di Matthew Libatique le sta incollata addosso, ne registra ogni respiro, ogni tremito, trasformando lo spettatore in un complice involontario della sua discesa agli inferi.

Il cigno nero non sarebbe altrettanto potente se non dialogasse, consapevolmente o meno, con due capisaldi del cinema sulla perdita dell'identità. Il primo, l'antenato nobile, è Scarpette rosse di Powell e Pressburger, il film definitivo sulla ballerina consumata dalla sua stessa arte, dove la passione artistica diventa una maledizione che la costringe a danzare fino alla morte. Ma se l'opera del 1948 era un fiammeggiante Technicolor melodramma, Aronofsky ne riprende il nucleo tematico e lo immerge in un bagno di acido espressionista. Il secondo, e forse più cruciale, punto di riferimento è un'opera di animazione giapponese: Perfect Blue di Satoshi Kon. Le analogie sono così sfacciate da rasentare il plagio creativo: una giovane artista nel mondo dello spettacolo, la perdita del confine tra sé e il proprio alter ego, un Doppelgänger persecutorio, scene di violenza e allucinazioni sessuali che si confondono con la realtà. Aronofsky ha persino acquistato i diritti di remake del film di Kon per poter ricreare una scena in Requiem for a Dream, e l'influenza su Il cigno nero è innegabile. È il terrore tutto contemporaneo della celebrità, dell'immagine pubblica che fagocita l'individuo, traslato nel microcosmo apparentemente anacronistico e polveroso del balletto classico.

Ma è nel corpo che il film trova la sua espressione più radicale e disturbante. La trasformazione di Nina non è solo psicologica, è fisica, grottesca. La pelle che si irrita e si squama, le unghie che si spezzano, le dita dei piedi che si fondono, le piume nere che spuntano dalla schiena come stigmate di una santità perversa. Aronofsky filma la carne non come un veicolo di bellezza, ma come un fragile involucro che si lacera, muta e tradisce. È qui che il regista americano si rivela un allievo insospettabile di David Cronenberg, per il quale la "nuova carne" è sempre una manifestazione esteriore di un trauma interiore. La metamorfosi di Nina in cigno è letterale, una mutazione orrorifica che è, al tempo stesso, la sua condanna e la sua più grande liberazione artistica.

Il film, uscito nel 2010, intercettava con precisione chirurgica le ansie di un'epoca. La spinta neoliberista alla performance a tutti i costi, la cultura dell'eccellenza che diventa una patologia, la pressione insostenibile, soprattutto sulle donne, a incarnare dualismi impossibili: essere pure ma seducenti, disciplinate ma passionali, perfette ma spontanee. Nina è la vittima sacrificale di questo paradigma. La sua tragedia non è solo personale, ma è l'esito tossico di un sistema che chiede all'individuo di annullarsi per raggiungere un ideale astratto. La sua follia è una forma estrema e disperata di sanità, l'unica via di fuga da una prigione di aspettative irraggiungibili.

La colonna sonora di Clint Mansell, che smonta e ricostruisce ossessivamente i temi di Čajkovskij, funge da perfetto correlativo oggettivo della psiche frammentata della protagonista. La musica classica, simbolo di ordine e armonia, viene distorta, trasformata in un incubo sonoro che accompagna la caduta di Nina. L'apice del film, la performance finale, è un tour de force di montaggio, suono e recitazione che trascende i generi. È dramma, è horror, è un'estasi visiva di una bellezza lancinante e terribile. Quando Nina, sanguinante e trasfigurata, si accascia dopo l'ultima piroetta, sussurrando "I was perfect", non sentiamo il trionfo, ma il vuoto agghiacciante di un'identità completamente divorata dall'arte. La perfezione, ci dice Aronofsky, non è un traguardo. È un epitaffio. E in quel sublime, terrificante istante, Il cigno nero si rivela non solo un film sulla danza, ma un'allegoria oscura e potente sul prezzo che paghiamo per diventare ciò che sogniamo di essere, scoprendo troppo tardi che il sogno era un mostro.

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