Il Corridoio della Paura
1963
Vota questo film
Media: 0.00 / 5
(0 voti)
Regista
Un lungo tunnel oscuro senza possibilità di rivedere l’uscita. Una discesa irreversibile, forse, nel cuore di tenebra della mente umana, ma ancor più incisivamente, nella psiche malata di un’intera nazione.
Questo film di Fuller, splendido nella sua angoscia claustrofobica, ci offre la misura della follia attraverso gli occhi della cosiddetta normalità. Samuel Fuller, cineasta dal piglio giornalistico e dalla sensibilità sferzante, non è mai stato uomo di mezzi termini. La sua poetica, brutale e cristallina al tempo stesso, si nutre di una visione disincantata dell’esistenza, dove la linea tra predatore e preda, tra il "sano" e il "folle", è un confine labile, quasi inesistente. Il Corridoio della Paura, o Shock Corridor nel suo più evocativo titolo originale, è la summa di questa filosofia, un’opera che scava impietosamente nelle pieghe oscure della società americana del primo dopoguerra, rivelandone le nevrosi più profonde.
Sarà l’occasione per Fuller di ribaltare il piano semantico di questo gioco e inquinare il senso di quest’operazione con la commistione dei due elementi in gioco. La follia, in questo microcosmo manicomiale, non è un’aberrazione, ma un sintomo, la manifestazione acuta di mali sociali endemici. Le mura dell’istituto non contengono l’insania; la riflettono, la amplificano, la sintetizzano in figure archetipiche di un’America malata.
La narrazione è incentrata sulla decisione di un ambizioso giornalista, Johnny Barrett, di farsi internare in un manicomio per far luce su un omicidio avvenuto all’interno di esso e su cui la polizia non è riuscita a fare chiarezza. L’intento dell’uomo è di far cadere la cortina di reticenza dei tre testimoni coinvolti – figure emblematiche ciascuna portatrice di un frammento di follia che è, in realtà, un frammento di storia e trauma americani – e smascherare il colpevole. L’ambizione di Barrett, la sua sete di scoop e la sua cieca convinzione di poter dominare la realtà per carpirne i segreti, si riveleranno la sua condanna. Egli si illude di poter indossare la maschera della follia senza che questa aderisca alla sua pelle, senza che penetri nelle sue vene e nel suo spirito.
Ma una volta recluso tra le non confortevoli mura del manicomio, circondato da urla, tic nervosi e sguardi perduti, l’uomo rimarrà invischiato nell’elemento che pretendeva di dipanare. Il manicomio di Fuller non è un mero sfondo, ma un organismo vivente, un incubo a occhi aperti che assorbe e trasforma chiunque osi profanarlo. I "testimoni" che Barrett cerca di interrogare sono molto più che semplici malati: sono gli spettri viventi delle patologie collettive. C'è Cathy, la ninfomane, che incarna la repressione sessuale e la sua brutale esplosione; c'è Boden, il fisico nucleare che crede di essere un bambino, simbolo della perdita d’innocenza e della paura atomica che ha segnato un’intera generazione; e poi c'è Trent, l’afroamericano che, delirando, si crede un leader del Ku Klux Klan, specchio distorto ma veritiero del razzismo e delle ferite mai rimarginate della storia americana. Questi personaggi non sono macchiette, ma potenti metafore, e la loro follia non è casuale: è un’eco amplificata delle angosce di una nazione in bilico tra il sogno americano e il suo lato più oscuro.
Un’opera oscura dove si annaspa per cercare un po’ d’aria fresca, un’aria che non si trova mai, né all’interno né all’esterno di quelle mura metaforiche. Fuller, con la sua maestria nel film noir e nella narrazione pulp, crea un’atmosfera di claustrofobica tensione, dove ogni angolo del corridoio sembra nascondere una minaccia, ogni volto una psiche tormentata. La macchina da presa, spesso intrusiva, si incolla ai volti, catturando ogni spasmo, ogni sguardo perso, ogni sudore freddo.
Atmosfere cupe in un bianco e nero spettrale, per rendere iconograficamente il seme della follia e imprimerlo a fondo nella pellicola e in tutti noi che stiamo assistendo. La fotografia di Stanley Cortez è una lezione di espressionismo visivo: contrasti netti, ombre profonde, una luce che taglia gli spazi come un bisturi, rivelando non solo le forme, ma le ansie recondite dei personaggi. Il manicomio diventa un labirinto visivo e psicologico, un luogo senza via d'uscita dove la percezione si distorce e la realtà si frantuma. Il grido di un paziente si mescola al fruscio dei camici, al ticchettio incessante degli orologi che scandiscono un tempo sospeso, preannunciando la caduta inesorabile di Barrett. In questo senso, Shock Corridor anticipa di oltre un decennio la critica sistemica alle istituzioni psichiatriche che troverà piena espressione in opere come Qualcuno volò sul nido del cuculo, ma lo fa con una ferocia e un’urgenza che restano impareggiabili. Qui non c'è speranza di liberazione; solo la cruda, implacabile constatazione che la gabbia più grande è quella che si costruisce dentro di sé.
Se esiste un film in grado di turbare le menti più forti è senza dubbio questo: una discesa agli inferi non tanto di un singolo individuo, ma di una collettività che, ignorando le proprie piaghe, le vede poi esplodere nelle forme più estreme e dolorose. Un capolavoro indimenticabile, un pugno nello stomaco che continua a risuonare ben oltre l’ultima sequenza, lasciando un’eco inquietante della nostra stessa, presunta, sanità.
Attori Principali
Generi
Paese
Galleria






Commenti
Loading comments...