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Il Decalogo

1989

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Un’opera di una tale grandezza che è veramente arduo abbracciarne in poche parole la sconfinata semantica. È un monolite di pensiero, una cattedrale cinematografica eretta non con pietra e malta, ma con dilemmi morali e incertezze esistenziali, capace di risuonare ben oltre i confini geografici e temporali della sua genesi.

Kieslowski si cimenta con sguardo intellettualmente disincantato (scevro cioè da ogni prodromo di materialismo) ai Dieci Comandamenti. Il suo sguardo non è lo sguardo di un ateo alla fede, ma la speculazione di un uomo di fronte all’infinito, un’esegesi laica e profondamente empatica del tessuto etico che da millenni tenta di governare la condizione umana. Non si tratta di una predica, né di una condanna, ma di un’indagine quasi forense sull’anima, laddove il divino non è imposto dall'alto, ma affiora – o si nega – dalle pieghe più recondite del quotidiano. Ogni frammento, pur incastonato in un contesto specifico della Polonia post-comunista, allora in bilico tra il retaggio di un socialismo grigio e l'incipiente affrancamento capitalistico, trascende la sua cornice per toccare corde universali, rivelando la fragilità e la forza dei principi morali quando si scontrano con la più elementare delle realtà: l'uomo e le sue pulsioni.

Originariamente uscito per la TV polacca e diviso in 10 puntate, una per ciascun comandamento, è un’opera di una compattezza stilistica granitica, ma al contempo di una profondità di campo che disorienta. Questa scelta formale, lungi dall'essere un mero vincolo produttivo, si rivela una geniale struttura narrativa. Il palinsesto televisivo diviene un mosaico di esistenze interconnesse, spesso abitate dagli stessi grigi condomini di Varsavia, dove i personaggi si sfiorano inconsapevolmente, o talvolta interagiscono fugacemente, amplificando il senso di un destino condiviso. Il rigore quasi matematico della serialità si fonde con un’ambiguità morale intrinseca, che è la vera cifra stilistica dell’opera. Ogni episodio sviscera il relativo comandamento mettendone in luce contraddizioni e rimandi esistenziali che infrangono ogni certezza dogmatica. Non è tanto il comandamento a essere messo in discussione, quanto la sua applicabilità, la sua interpretazione, e la sua inevitabile collisione con la fallibilità umana.

Ogni episodio tenta di permeare il verbo divino attraverso una storia umana che ne incarni il messaggio e lo trasfiguri in una poetica cristallina. Kieślowski non offre risposte facili, né giudizi lapidari. Al contrario, espone il dilemma in tutta la sua straziante irrisolvibilità, lasciando allo spettatore il fardello dell'interpretazione. Qui risiede la sua grandezza: la capacità di elevare il quotidiano a dramma metafisico, di trasformare l'ordinario in sublime. La macchina da presa si fa occhio discreto, quasi bressoniano, osservando con implacabile lucidità i volti e le azioni di individui comuni, intrappolati in dilemmi etici che oscillano tra il tragico e l'assurdo. Spesso, un misterioso osservatore, un giovane uomo enigmatico e silenzioso, si aggira ai margini delle storie, un testimone silente e impassibile, la cui presenza catalizza interrogativi sulla provvidenza, sul caso o semplicemente sulla condizione dell'essere spettatore del destino altrui. È un'incarnazione del "sguardo" di Kieślowski stesso: la speculazione dell'uomo di fronte all'infinito, un monito alla nostra coscienza.

Kieslowski gioca sempre sulle dicotomie: fede e conoscenza, Dio e Ragione, uomo e divino. Queste antitesi non sono mai risolte, ma permangono in uno stato di tensione creativa, alimentando la complessità di ogni narrazione. È la lotta titanica tra il Logos e l'arbitrio umano, tra il sacro e il profano che si mescolano senza soluzione di continuità nella vita di tutti i giorni. L'architettura visiva, con le sue cromie spesso cupe ma interrotte da improvvisi lampi di colore o da una luce che penetra le fessure del cemento, evoca un mondo che è al contempo opprimente e permeabile alla trascendenza. La fotografia, curata da direttori della fotografia come Piotr Sobociński e Edward Kłosiński, contribuisce a creare un'atmosfera sospesa, quasi un presagio, dove la bellezza si trova spesso nella cruda verità delle emozioni. La colonna sonora di Zbigniew Preisner, sublime e commovente, non è un mero accompagnamento, ma un vero e proprio personaggio, un commento musicale che amplifica il pathos e il senso di ricerca spirituale, talvolta riecheggiando temi sacri, altre volte evocando una malinconia profonda e umana.

Il risultato rimane un’opera di altissimo ingegno, di un lirismo purissimo, di grande tecnica registica. Se si pensa ai maestri che hanno sondato l'animo umano con tale profondità – da Bergman, con il suo dialogo costante con il silenzio di Dio, a Dostoevskij, con le sue indagini sulle pulsioni più oscure e sulle possibilità di redenzione – si comprende la statura di Kieślowski. "Il Decalogo" si erge come un monumento alla complessità dell'esistenza, un affresco morale che interroga senza giudicare, che mostra senza imporre. È un vero e proprio punto d’arrivo della cinematografia moderna, non solo per la sua audacia tematica e formale, ma per la sua capacità di farci guardare dentro, di confrontarci con le nostre contraddizioni e con quell'insopprimibile bisogno di senso che, in fondo, è il comandamento più antico di tutti. La sua rilevanza non accenna a diminuire, perché i dilemmi che esplora sono coevi all'uomo stesso.

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