Il dottor Zivago
1965
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Regista
Un poema scritto sul gelo di una finestra, mentre fuori la Storia, con la maiuscola, divora il mondo. Forse non esiste sintesi più efficace per distillare l'essenza de Il dottor Zivago, l'opera monumentale con cui David Lean, nel 1965, non si limitò ad adattare il controverso romanzo di Boris Pasternak, ma tentò di dipingere la più grande e tragica delle tele: l'anima individuale schiacciata sotto il peso di un'epopea collettiva. È un'impresa titanica, quasi arrogante nella sua ambizione, che trasforma una cronaca di rivoluzione, guerra e disfacimento in un melodramma filosofico di proporzioni wagneriane.
Lean, del resto, non è mai stato un regista di miniature. Il suo cinema è un atto di gigantismo estetico, una dichiarazione d'amore per il formato 70mm, che nelle sue mani diventa non solo un modo per amplificare lo spettacolo, ma uno strumento per indagare la relazione tra l'uomo e lo spazio che lo sovrasta. Se in Lawrence d'Arabia il deserto era un'entità metafisical, un vuoto accecante che rifletteva il vuoto interiore del protagonista, qui la steppa russa, ricreata magistralmente tra la Spagna e la Finlandia, è un personaggio vivo, crudele e sublime. È un oceano bianco e sterminato, una pagina immacolata su cui la Rivoluzione d'Ottobre scrive la sua narrazione con il sangue. La fotografia di Freddie Young, che vinse un meritatissimo Oscar, non si limita a catturare paesaggi mozzafiato; li trasfigura in stati d'animo. Il treno che fende la Siberia è un serpente d'acciaio che penetra nel cuore di un continente e di un'epoca, i suoi passeggeri compressi come anime in un limbo dantesco. Il palazzo di ghiaccio a Varykino non è una semplice casa, è una cattedrale di memoria congelata, il mausoleo di un amore impossibile, un'installazione artistica creata dal caso e dalla disperazione. Lean pensa per immagini che sono già, in sé, narrazione e commento, avvicinandosi più a un pittore ottocentesco della corrente dei Peredvižniki, ossessionati dal catturare la vastità e la malinconia dell'anima russa, che a un tradizionale narratore cinematografico.
Il paradosso fondante del film risiede proprio in questo scarto tra la magniloquenza della cornice e l'intimità del dramma. Al centro di questo uragano storico non c'è un eroe d'azione, un leader o un rivoluzionario, ma una figura quasi passiva: Yuri Zivago. Omar Sharif, con i suoi occhi liquidi e perennemente malinconici, incarna un uomo che non agisce sulla Storia, ma la subisce, la assorbe, la filtra attraverso la sua sensibilità di medico e poeta. È un sismografo dell'anima in un'era di terremoti. La sua unica, vera forma di ribellione non è imbracciare un fucile, ma aggrapparsi alla bellezza, all'amore per due donne, la devota Tonya (Geraldine Chaplin) e l'incandescente Lara (Julie Christie), e tentare di tradurre il caos in versi. Questa sua passività, spesso criticata come un difetto di sceneggiatura, è in realtà il cuore tematico dell'opera. Zivago rappresenta l'intellettuale, l'umanista, l'individuo la cui intera esistenza è definita dalla propria interiorità, gettato in un'arena dove contano solo l'ideologia, la forza bruta e l'appartenenza a una massa.
Se Zivago è il punto di vista, Lara Antipova è l'epicentro emotivo, il simbolo stesso della Russia. È una creatura di struggente bellezza e resilienza, contesa, violata e amata, che passa dalle mani del cinico e mefistofelico Komarovsky (un Rod Steiger magistrale nella sua viscida vitalità) a quelle del marito idealista Pasha Antipov (Tom Courtenay), trasformatosi nel gelido e dogmatico generale bolscevico Strelnikov. Lara è la musa che ispira la poesia di Zivago, ma è anche la terra stessa, che sopporta ogni brutalità eppure conserva una capacità quasi miracolosa di generare vita e amore. La loro storia non è un semplice triangolo amoroso inserito in un contesto storico; è un'allegoria. È l'incontro impossibile tra la Poesia (Yuri) e l'Anima di una nazione (Lara), un amore che può esistere solo in momenti rubati, in oasi di pace precaria come Varykino, prima che la marea della Storia torni a travolgere tutto. Il tema musicale di Maurice Jarre, "Lara's Theme", è diventato un'icona kitsch, ma nel contesto del film funziona come un potentissimo leitmotiv, un'ancora sonora che ci ricorda costantemente la persistenza di questo sentimento privato in mezzo al fragore pubblico.
La sceneggiatura di Robert Bolt, che aveva già collaborato con Lean per Lawrence, compie un'operazione di distillazione tanto brillante quanto, per certi versi, traditrice nei confronti del romanzo di Pasternak. Il libro è un'opera lirica, frammentata, filosofica, piena di digressioni e personaggi che appaiono e scompaiono. Bolt la riorganizza in una narrazione epica e lineare, più accessibile ma inevitabilmente meno complessa. Sacrifica la polifonia di Pasternak per la chiarezza di un racconto quasi mitologico, incorniciato dalla ricerca del generale Yevgraf Zhivago (Alec Guinness, figura di narratore omerico) della figlia perduta di Yuri e Lara. Questa struttura a flashback trasforma l'intera vicenda in una leggenda, la cronaca di un mondo svanito i cui unici resti sono un poema e uno strumento musicale, la balalaika. La balalaika diventa così un oggetto meta-narrativo, il filo di DNA culturale che collega le generazioni, la prova che l'arte, anche quando incompresa, sopravvive ai suoi creatori e alle ideologie che hanno cercato di sopprimerla.
È fondamentale, per comprendere Il Dottor Zivago, inserirlo nel suo contesto. È un film del 1965, girato in piena Guerra Fredda da una produzione occidentale. È una visione della Rivoluzione Russa filtrata attraverso uno sguardo esterno, romantico e inevitabilmente critico verso il totalitarismo sovietico. Il romanzo di Pasternak era stato bandito in URSS e la sua pubblicazione in Occidente (grazie all'editore italiano Feltrinelli) e il conseguente Premio Nobel, che l'autore fu costretto a rifiutare, erano stati un casus belli culturale. Il film di Lean è, anche, un'arma in questa guerra. Non è un'analisi storica, ma una presa di posizione umanistica. Non gli interessa la dialettica tra menscevichi e bolscevichi, ma il costo umano di ogni fanatismo. La figura di Strelnikov è emblematica: l'uomo che sacrifica il suo nome, il suo amore, la sua stessa umanità sull'altare di un'idea astratta, fino a diventare un guscio vuoto, un "giudizio eseguito", come lui stesso si definisce. La sua traiettoria è la tragedia speculare a quella di Zivago: uno si perde per servire la Storia, l'altro si salva (spiritualmente, non fisicamente) aggrappandosi a ciò che la Storia vorrebbe cancellare.
Certo, si può accusare Lean di aver edulcorato la brutalità, di aver preferito la bellezza pittorica all'asprezza del reale, di aver scelto un egiziano e un'inglese per incarnare l'anima russa. Ma queste critiche mancano il punto. Il Dottor Zivago non ha mai voluto essere un documento neorealista. È un'opera, nel senso musicale del termine. È un kolossal dell'anima, un poema visivo sulla fragilità della bellezza e la tenacia della memoria. La sua eredità non sta nella precisione storiografica, ma nella sua capacità di porre una domanda universale e senza tempo: cosa resta dell'individuo quando le grandi narrazioni collettive collassano? La risposta, per Lean e Pasternak, è un soffio di poesia, l'eco flebile di un canto che si credeva perduto, il talento quasi dimenticato di suonare una balalaika. È un'eredità fragile, quasi impalpabile, ma è l'unica che conti davvero.
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