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Il Figlio

2002

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Il cinema asciutto, artigianale e possente dei fratelli Dardenne non può lasciare indifferenti. La loro è una scelta estetica e filosofica radicale, un’adesione quasi monacale a un realismo che rifugge ogni spettacolarizzazione, ogni tentazione di edulcorazione narrativa. È un cinema che si nutre dell'osservazione minuta, quasi entomologica, della condizione umana, e della potenza intrinseca del gesto quotidiano. Non è semplicemente assenza di artificio, ma una deliberata sottrazione di elementi superflui che mira a isolare l'essenza stessa del dramma, rendendolo non solo visibile ma palpabile.

I loro film sono denudati di ogni orpello cinematografico – non già assenza di tecnica, bensì un rifiuto sistematico dell'ostentazione, laddove anche i loro celebri piani sequenza non sono mai virtuosistici, ma strumenti di immersione totale, prolungamento dello sguardo che abbraccia e insegue la realtà senza tagli esplicativi; l'assenza di colonna sonora non è un vuoto, ma un invito all'ascolto attento del mondo, dei suoi rumori e dei suoi silenzi carichi di significato; il lirismo delle immagini è sostituito da una nuda verità che si impone; i flashback esplicativi vengono banditi in favore di una narrazione che si dispiega nel presente vivo e incerto – per arrivare alla scarnificazione totale dell’opera e alla sua pubblica gogna estetica. È come se ogni elemento formale fosse messo alla prova, sottoposto a un vaglio rigoroso affinché solo ciò che è essenziale, ciò che è strutturale alla materia narrativa, possa rimanere.

Anche questo splendido capitolo del loro percorso artistico non fa eccezioni, anzi, ne rappresenta forse una delle più acute e perturbanti declinazioni. La loro telecamera si posa con la consueta discrezione sulla vita di Olivier, un falegname (la scelta del mestiere non è casuale: un lavoro che modella, ripara, ma anche segna e intaglia, metafora di una vita che cerca di ricostruirsi, di dare forma al dolore) che si muove con la gravità di chi porta un peso invisibile. Il titolare di una falegnameria, Olivier, assume un ragazzino di 16 anni proveniente dal riformatorio e ne diviene il tutore. In un mondo che spesso condanna senza appello i suoi margini, Olivier si offre come baluardo, un mentore, pur celando le proprie, inconfessabili, ragioni. Questo atto di apparente benevolenza è il primo, ambiguo, passo verso una discesa negli abissi dell'animo umano.

Tra i due si instaura un rapporto paterno con radici profonde, ma sin da subito intriso di una tensione quasi insostenibile. La macchina da presa dei Dardenne, con la sua inconfondibile agilità a spalla, si fa ombra, quasi il terzo incomodo in questo singolare duetto, pedinando Olivier con una prossimità che genera un disagio profondo. Eppure Olivier si dimostra turbato nei confronti del ragazzo e nonostante la scorza superficiale della loro amicizia qualcosa getta angoscia nell’animo dell’uomo. Non è semplicemente una reticenza o una difficoltà di comunicazione; è un'inquietudine viscerale che si manifesta nel linguaggio del corpo, nelle esitazioni, nei silenzi colmi di non detto che pervadono ogni interazione. Lo spettatore è posto in una posizione di interrogazione costante, quasi un investigatore delle pieghe recondite dell'anima.

Lo spettatore scoprirà solo in seguito che Olivier è il padre della vittima assassinata da quel ragazzo cinque anni prima. Questa rivelazione, rilasciata con una precisione chirurgica e quasi brutale, non è un colpo di scena da thriller, bensì l'innesco di una delle più strazianti e moralmente complesse indagini sul tema del perdono e della vendetta mai proposte dal cinema contemporaneo. Il film si trasforma così in una sorta di tragedia greca moderna, dove il destino e le sue ineluttabili, cruente, conseguenze si confrontano con la fragilità e la forza della volontà umana. Non c'è catarsi facile, ma un confronto serrato con l'impensabile: come si può coesistere, e persino istituire un legame, con l'incarnazione del proprio dolore più indicibile? L'opera dei Dardenne non offre risposte consolatorie, ma pone domande brucianti sulla natura della giustizia, non quella legale ma quella intima, e sulla possibilità, o l'impossibilità, di superare l'impulso primordiale della ritorsione.

La cinepresa a spalla dei Dardenne segue i due protagonisti, quasi spiandoli in composto silenzio, aderendo ai loro movimenti, ai loro sguardi, alle loro mani che lavorano il legno. Non c'è distanza tra l'osservatore e l'oggetto osservato; al contrario, il pubblico è invischiato, quasi fisicamente presente, nella tensione che aleggia tra Olivier e Francis. Questa scelta stilistica, lungi dall'essere un mero vezzo autoriale, è il cuore pulsante del loro approccio. Si potrebbe quasi parlare di un cinema tattile, dove il contatto visivo si traduce in un'esperienza quasi epidermica, un'empatia forzata che obbliga a confrontarsi con la sofferenza altrui senza filtri. L'assenza di musica diegetica o extradiegetica amplifica questo effetto, lasciando che siano i suoni del mondo – il raschiare del legno, il cigolio di una porta, i passi su un pavimento – a scandire il ritmo del dramma, rendendo ogni istante di silenzio una pausa carica di presagi e di riflessione.

Il processo di semplificazione dell’immagine innesta un sottile meccanismo di compartecipazione nello spettatore, ciò che per i greci prendeva il nome di pathos. Ma non è un pathos che mira alla mera lacrima o a una facile identificazione; è un pathos che scava, che turba, che costringe a una scomoda introspezione. È la sensazione di essere testimoni di una lotta interiore ed esterna, di una rincorsa al perdono che è prima di tutto un confronto con se stessi, con i propri limiti e con la propria capacità di superare l'orrore. "Il Figlio" non è solo un racconto di dolore e possibile redenzione; è una meditazione profonda sull'etica della visione, sulla responsabilità dello sguardo. Ci interroga sulla possibilità di amare o almeno di accogliere chi ci ha ferito nel profondo, portando all'estremo il concetto di compassione. Un film innovativo e toccante, che si imprime nell'anima non per la sua spettacolarità, ma per l'incrollabile forza della sua verità umana, rendendolo un'opera cardinale non solo nella filmografia dei Dardenne, ma nel panorama cinematografico mondiale, capace di risuonare con la potenza di un antico coro tragico in un contesto contemporaneo.

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