Il gigante di ferro
1999
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Regista
Una fiaba meccanica, un’eco di metallo e circuiti proveniente da un futuro che non fu mai, atterra nel cuore pulsante del più grande mito americano: il passato. Il gigante di ferro di Brad Bird non è semplicemente un film d'animazione; è un palinsesto emotivo e culturale su cui si stratificano la paranoia della Guerra Fredda, l'archetipo del "nobile selvaggio" rousseauiano re-immaginato in chiave sci-fi e la più pura e lancinante parabola sulla natura del libero arbitrio. È un film che guarda alle stelle con gli occhi di un bambino del Maine nel 1957, ma che parla con la saggezza di un filosofo che ha visto crollare imperi e ideologie. È, in breve, un automa con un'anima, un poema di latta e fulmini che interroga il concetto stesso di umanità.
La scelta dell'ambientazione, ottobre 1957, è un colpo di genio storiografico e narrativo. Non è un mero sfondo nostalgico tinto di seppia; è il motore immobile del conflitto. Pochi giorni prima, l'Unione Sovietica ha lanciato lo Sputnik, e il "bip-bip" di quel piccolo satellite ha perforato il cielo americano, lacerando il velo di invulnerabilità che avvolgeva la nazione. L'ignoto non è più una frontiera da esplorare, ma una minaccia incombente. In questo brodo primordiale di ansia collettiva, dove i bambini imparano a nascondersi sotto i banchi durante le esercitazioni anti-atomiche ("Duck and Cover!"), la caduta di un oggetto non identificato dal cielo non può che essere interpretata come un atto di aggressione. Il Gigante non è una meraviglia; è un'invasione. Bird orchestra una sinfonia della paura in cui ogni personaggio reagisce secondo la propria natura. L'agente governativo Kent Mansley, figura quasi mefistofelica nella sua viscida ambizione, è l'incarnazione di questa paranoia istituzionalizzata. Non è un cattivo da operetta; è un uomo spaventosamente logico nel suo illogico terrore, un prodotto del suo tempo la cui unica direttiva è neutralizzare ciò che non comprende. La sua crociata contro il Gigante è la metafora perfetta di una mentalità che preferisce sparare per prima e fare domande poi, un'attitudine che ha quasi condotto il mondo all'auto-annientamento.
Al polo opposto di questo spettro morale si trova Hogarth Hughes. Non un eroe muscolare, ma un eroe intellettuale e spirituale. Hogarth è il piccolo principe di Saint-Exupéry catapultato in un'illustrazione di Norman Rockwell. È l'outsider, il ragazzino curioso e solitario la cui immaginazione, nutrita di fumetti di fantascienza e B-movie horror, gli fornisce gli strumenti per andare oltre l'apparenza. Dove gli adulti vedono una minaccia, lui vede un'anima. La loro amicizia è una delle più commoventi mai ritratte sullo schermo, una rielaborazione del classico topos del "ragazzo e il suo cane" che assume qui contorni mitologici. Il Gigante, dal canto suo, è una creatura di una complessità abissale. È un Golem post-industriale, un moderno Adamo di titanio la cui innocenza primigenia è una tela bianca su cui si proiettano le paure di un'intera nazione. La sua memoria è frammentata, la sua origine un mistero, ma il suo istinto è quello di un bambino curioso. La sua stessa natura è una contraddizione: è stato costruito per essere un'arma, una macchina di distruzione apocalittica, eppure il suo primo contatto con il mondo è un atto di apprendimento e di gentilezza. Questa dialettica tra programmazione e scelta è il cuore pulsante del film, un dilemma che riporta direttamente al Frankenstein di Mary Shelley: il "mostro" è intrinsecamente malvagio o è il pregiudizio dei suoi creatori (e della società) a renderlo tale?
La risposta che Bird fornisce è di una potenza etica sconvolgente, condensata in una singola, indimenticabile frase insegnata da Hogarth al Gigante mentre sfoglia un fumetto: "Tu sei quello che scegli di essere". In questo momento, il film trascende il suo genere e si eleva a trattato filosofico. Il Gigante, leggendo di Superman – un altro alieno giunto sulla Terra per diventarne il più grande protettore – trova un modello, un ideale a cui aspirare. L'idea che un'arma possa imparare l'eroismo da un'opera di finzione è di una raffinatezza meta-testuale sublime. L'arte, il racconto, il mito diventano gli strumenti attraverso cui la coscienza può essere forgiata, attraverso cui un destino di distruzione può essere riscritto in un destino di sacrificio. Non è un caso che a fare da ponte tra il mondo paranoico degli adulti e quello innocente di Hogarth ci sia Dean McCoppin, l'artista beatnik. Dean, che vive in una discarica trasformando rottami in sculture, è l'unico adulto in grado di "vedere" il Gigante per quello che è: non spazzatura o minaccia, ma potenziale bellezza. La sua arte è un atto di redenzione materiale, così come l'amicizia di Hogarth è un atto di redenzione spirituale per il Gigante.
Visivamente, Il gigante di ferro è un capolavoro di sintesi stilistica. Brad Bird e il suo team fondono con una fluidità miracolosa l'animazione tradizionale, calda e organica, per i personaggi umani e l'ambiente, con una computer grafica allora all'avanguardia per il Gigante. Questa scelta non è puramente tecnica, ma profondamente tematica. Il Gigante si muove nel mondo disegnato a mano di Rockwell, Maine, come un elemento alieno, la sua perfezione digitale e la sua fisicità metallica che contrastano con le linee morbide e le imperfezioni del mondo umano. Questo scontro visivo è la rappresentazione estetica del conflitto narrativo. La regia di Bird è di una precisione chirurgica, capace di passare da momenti di comicità slapstick a sequenze di una tensione quasi hitchcockiana, fino a toccare vette di lirismo puro, il tutto sostenuto dalla magnifica partitura di Michael Kamen, che sa essere tonante e intima, epica e straziante.
Il finale è una catarsi che ancora oggi lascia senza fiato. Quando il Gigante, credendo Hogarth morto, cede al suo programma originale e si trasforma nella terrificante macchina da guerra che era destinato a essere, assistiamo a una delle più potenti rappresentazioni del dolore che si trasforma in furia. I suoi occhi, normalmente di un bianco innocente, diventano di un rosso implacabile. Ma è proprio in questo abisso di violenza che la sua scelta diventa definitiva. La voce di Hogarth lo riporta alla ragione, e il suo sacrificio finale per intercettare il missile nucleare lanciato da Mansley è l'apoteosi del suo percorso. "Superman," mormora un istante prima dell'impatto. In quella singola parola c'è tutto: l'accettazione della propria scelta, il compimento di un destino non imposto ma conquistato, la vittoria definitiva dell'anima sulla programmazione.
Fallimento commerciale alla sua uscita, a causa di una campagna marketing disastrosa da parte di Warner Bros., Il gigante di ferro è diventato negli anni un'opera di culto, un classico la cui reputazione è cresciuta inesorabilmente. E a ragione. È un film che dialoga con E.T. l'extra-terrestre di Spielberg, ma ne complica la premessa: mentre E.T. è un'entità intrinsecamente buona, il Gigante deve lottare contro una natura oscura inscritta nel suo stesso codice. È una lotta interiore che lo rende un personaggio tragico e infinitamente più complesso. In un'epoca cinematografica spesso dominata dal cinismo, Il gigante di ferro rimane un monumento all'ottimismo, non un ottimismo ingenuo, ma uno conquistato a caro prezzo. Ci ricorda che le nostre armi più potenti non sono quelle che distruggono, ma quelle che creano legami. E che anche nel cuore del più freddo dei metalli, un pezzo alla volta, può sempre ricomporsi un'anima. Un'anima che, come ci mostra la scena finale tra le nevi dell'Islanda, sceglierà sempre, ostinatamente, di tornare a casa.
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