Il Grande Lebowski
1998
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Registi
Il percorso estetico dei fratelli Coen, da Simple Blood a Fargo passando per Crocevia della Morte e Barton Fink, è sempre stato screziato di una comicità sotterranea, una verve ironica che pulsa nelle loro storie e che ne stempera la drammaticità, ne corrode il formalismo. Questa peculiare sensibilità, che in altre mani avrebbe potuto risultare stucchevole o disarmonica, è stata per loro un marchio di fabbrica, una lente deformante attraverso cui osservare la desolante grandezza della provincia americana, le sue patologie silenziose, i suoi personaggi al limite del grottesco. In questi precedenti lavori, la risata emergeva spesso come un singhiozzo nervoso, un meccanismo di difesa contro l'orrore o l'assurdità incombente, un commento amaro e distaccato sull'inevitabile stupidità umana che permea anche le trame più oscure.
Ne Il Grande Lebowski questa vis comica viene finalmente alla luce in tutto il suo candido splendore, non più come sottotesto ma come tessitura stessa dell'opera. Una comicità, se si vuole, dal molteplice registro: dalla sguaiato sarcasmo alla parodia più irriverente, transitando per la sottile ironia che si cela in ogni dialogo, in ogni sguardo, in ogni non-sequitur. I Coen non si limitano a narrare una storia, ma costruiscono un affresco postmoderno dell'America di fine millennio, un pastiche di generi – il noir, la commedia degli equivoci, il film "da sballo" – che si fondono in un'esplosione di surreale genialità. È una celebrazione dell'assurdo, un inno alla pigrizia filosofica, un manifesto per l'accettazione del caos come unica costante.
Al centro di questo universo scentrato, i Coen disegnano un personaggio memorabile, un'icona destinata a trascendere lo schermo: Jeffrey "The Dude" Lebowski, un cazzone pigro, irriverente e fannullone che si lascia scivolare nella vita sfruttando la spinta inerziale della sua indolenza. Il Drugo non è semplicemente un pigro; è un anacronismo vivente, un relitto della controcultura degli anni Settanta che fluttua intatto – o forse incallito – nel cinismo degli anni Novanta. La sua "sacra quiete" non è mera apatia, ma una forma di resistenza passiva, una filosofia zen dell'inerzia in un mondo ossessionato dal fare, dall'avere, dal dimostrare. Il suo disinteresse per le convenzioni borghesi e per la corsa al successo lo eleva, paradossalmente, a una sorta di saggio involontario, un Ulisse moderno che, invece di cercare il ritorno a Itaca, cerca solo la sua boccetta di Kahlúa e un buon tappeto.
Il nostro Dude (in italiano si è pensato di tradurlo con un goffo “drugo”, scimmiottando il Kubrick di Arancia Meccanica e, forse, perdendo un po' della spontanea rilassatezza dell'originale) si troverà ben presto e suo malgrado invischiato in storie di soldi, di malavitosi e di rappresaglie che metteranno in pericolo il suo sacro quieto vivere. Il plot, con il suo MacGuffin del tappeto pisciato, è una geniale parodia del classico hard-boiled, dove il detective cinico e disilluso è sostituito da un bowlingista fumatore di erba che fatica a distinguere il bene dal male, o anche solo un Lebowski dall'altro. La trama si dipana in un'esilarante mise en abyme di equivoci identitari, di figure eccentriche che gravitano attorno a un'idea distorta di ricchezza e potere, e di nichilisti tedeschi con un'opinione molto chiara sul valore della vita umana.
Un film che mette in luce la bravura mimetica di Jeff Bridges, il quale non si limita a interpretare il Drugo ma sembra incarnarlo, con una naturalezza disarmante che lo rende immediatamente credibile e amabile. Accanto a lui, un cast di contorno che è un'autentica galleria di personaggi indimenticabili: John Goodman nel ruolo del veterano del Vietnam Walter Sobchak, un amico militarista e pragmatico, rigidamente ancorato a regole autoimposte e a traumi mai superati che esplodono in performance di rabbia incontrollabile; Steve Buscemi nel ruolo dell'innocuo e inascoltato Donny, e uno splendido cameo di John Turturro nel ruolo del giocatore di bowling ispanico Jesus Quintana.
Memorabile la scena dello strike di Quintana con la tecnica di lancio, la lingua che saetta malandrina a lambire la palla, e il balletto finale in salsa latineggiante. Un momento di pura, esagerata performatività che irrompe nella placida routine del bowling, un'esplosione di sessualità e machismo che contrasta e al tempo stesso completa il minimalismo esistenziale del Drugo. La pista da bowling stessa diventa un microcosmo dell'America, un palcoscenico per i rituali quotidiani e per le sfide più o meno sublimi dell'essere.
Altra gag grandiosa, e quintessenza dell'umorismo coeniano: Drugo e Walter disperdono nel mare le ceneri dell’amico appena deceduto in modo surreale, con Walter che, nel tentativo di imporre la sua personale interpretazione delle volontà testamentarie, disastro per disastro, si rivela più incapace del Drugo stesso. Una folata di vento e Drugo si ritrova con il viso ricoperto dalle sacre spoglie mentre inveisce contro lo stolido Walt, in un momento che incarna perfettamente il caos esistenziale che permea l'intero film, e la fatale collisione tra le buone intenzioni e la più completa, esilarante incompetenza. La sequenza è un compendio di humour nero, slapstick e riflessione malinconica sulla morte e sull'amicizia, suggellando l'identità del Drugo non come eroe, ma come l'unico, autentico sopravvissuto al delirio del mondo. Un film che, anni dopo la sua uscita, ha generato una vera e propria filosofia di vita, il "Dudeismo", a testimonianza del suo impatto duraturo e della sua sorprendente profondità.
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