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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Il Grande Silenzio

1969

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Il western, per definizione, è polvere. È il sole che cuoce il cervello nel deserto della Monument Valley. Sergio Corbucci prende questa convenzione geografica e morale e la capovolge, la immerge nella neve. Il Grande Silenzio non è un western nel senso classico; è un anti-western, un'elegia funebre ambientata in un inferno bianco. La neve (le Dolomiti che fingono lo Utah) non è uno sfondo pittoresco; è la protagonista morale del film. È una coltre che non purifica, ma soffoca. Soffoca il suono (il silenzio del titolo), soffoca la speranza, soffoca la moralità. È il 1968, l'anno delle rivoluzioni fallite e della repressione della Primavera di Praga, e Corbucci, già maestro del "fango" e del cinismo in Django, qui si supera. Passa dal fango al gelo e firma l'atto di morte definitivo del genere, un'opera di nichilismo così puro da far sembrare i film di Leone delle commedie ottimiste.

Il protagonista del western è, per definizione, colui che parla con la pistola, ma la cui parola (il "nome") ha un peso. Corbucci ci presenta un eroe che è l'assenza stessa della parola: Silenzio (un Jean-Louis Trintignant alieno, ieratico). La sua gola è stata tagliata da bambino, un trauma che lo definisce e lo motiva. Il suo mutismo non è la scelta stoica dell'Uomo Senza Nome di Leone; è una mutilazione fisica che riflette la mutilazione morale del mondo che abita. È la metafora centrale del film: in questo universo, la giustizia è muta, incapace di articolare un discorso. Silenzio non parla, agisce. E agisce con una Mauser C96, una pistola semiautomatica (tecnicamente anacronistica per l'epoca, ma visivamente perfetta, un feticcio "nerd" di Corbucci), un'arma "moderna" contro la brutalità primitiva. Lui non è un difensore della giustizia in astratto; è un professionista della vendetta. Viene pagato per uccidere, ma il suo codice lo porta a difendere i "tagliati fuori"—i poveracci, i mormoni, gli emarginati costretti al banditismo dalla fame—che la "legge" ha reso prede legali per i cacciatori di taglie.

Il western italiano ha ridefinito il concetto di "cattivo", ma Klaus Kinski in questo film è a un livello superiore di perversione. Il suo Tigrero (o Loco, a seconda del doppiaggio) è il male puro, ma non è un male caotico. È un male legalista. È un cacciatore di taglie che uccide solo quando è "legale" (cioè, quando i suoi bersagli sono indifesi e c'è una taglia). Kinski, con i suoi occhi di ghiaccio che sembrano l'unica cosa viva nel paesaggio, non recita: incarna la perversione della legge. È un sadico che gode del suo lavoro, ma solo perché il sistema glielo permette. Tigrero è un capitalista della morte. Ma egli è solo lo strumento. Il vero architetto del male è Pollicut (Luigi Pistilli), il banchiere, l'uomo "rispettabile" in giacca e cravatta. È lui che usa la legge come arma, che spinge i poveri all'illegalità (costringendoli a rubare per sopravvivere e accumulando così taglie sulle loro teste) per potersi impossessare legalmente delle loro proprietà. Corbucci crea un'alleanza terrificante: il capitalismo predatorio (Pollicut) e la violenza legalizzata (Tigrero). È una critica spietata a un sistema dove la proprietà vale più della vita umana.

Il film non si ferma alla critica economica. È profondamente politico nel suo pessimismo. In questo mondo, la Legge (quella "civile", del Nord) è rappresentata dallo sceriffo Burnett (Frank Wolff), un uomo onesto, ma completamente inetto. È un burocrate che crede nelle regole e nell'amnistia in un mondo che ha già divorato ogni regola. La sua fine (assassinato a tradimento da Tigrero) è la dimostrazione dell'impotenza della "giustizia" di fronte alla violenza organizzata. E poi c'è Pauline (Vonetta McGee), la vedova che assume Silenzio per vendicare il marito. La sua presenza è rivoluzionaria. Non solo è il motore dell'azione, ma è una protagonista femminile nera in un genere dominato da uomini bianchi. La sua relazione (anche fisica) con Silenzio è un atto di sfida radicale alle convenzioni razziali del 1968. Lei è l'unica portatrice di speranza nel film, l'unica che crede ancora in un futuro. E questo, nell'universo di Corbucci, è il suo peccato capitale, la sua condanna a morte.

La colonna sonora di Ennio Morricone è complice di questo omicidio del mito. Dimenticate le trombe trionfali e gli urli di coyote della Trilogia del Dollaro. Il Morricone de Il Grande Silenzio è un compositore funebre. La partitura è un lamento, un requiem anticipato. Il tema principale, guidato da una chitarra dolente e archi sommessi, non celebra l'eroe; ne piange la solitudine e ne preannuncia la sconfitta. È una musica che non dà speranza, ma che costringe all'introspezione. Morricone usa il silenzio—il vero silenzio della neve che attutisce i suoni—come strumento principale, e le sue note sono solo il contrappunto necessario per sottolineare il vuoto. La fotografia di Enzo Barboni (che, ironia della sorte, diventerà il regista della parodia Lo chiamavano Trinità...) cattura una luce fredda, quasi clinica, e la musica di Morricone è il bisturi che incide questa superficie gelata.

E poi, il finale. Se Il Grande Silenzio fosse un film americano, Silenzio, pur ferito (magari alle mani, come Django), avrebbe trovato un modo ingegnoso per vincere. Ma Corbucci è un nichilista europeo. Il finale di questo film è uno degli atti di terrorismo cinematografico più puri della storia. Non c'è catarsi. Non c'è giustizia. Tigrero, il cattivo, è metodico. Mutila Silenzio sparandogli ai pollici (la sua "voce", la sua abilità) e poi lo giustizia. Uccide Pauline. Uccide tutti gli ostaggi che Silenzio cercava di proteggere. E mentre cavalca via con i soldi di Pollicut, ridendo, la macchina da presa si alza su un massacro totale. La didascalia finale, che ci informa che la "legge" del 1899 avrebbe poi reso illegale il bounty-killing, non è una consolazione. È uno sberleffo. È il dito medio di Corbucci che ci dice: la giustizia arriva sempre troppo tardi, e arriva solo per i libri di storia, non per le vittime. È la conclusione perfetta per il 1968: l'idealismo (Pauline, Silenzio) viene massacrato dal potere (Tigrero, Pollicut). Non c'è speranza. C'è solo il silenzio.

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