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Il Ladro di Orchidee

2002

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Da uno dei giovani registi più interessanti degli ultimi tempi, Spike Jonze – figura chiave di quella ondata di autori che ha ridefinito il panorama cinematografico a cavallo del millennio – arriva quest’opera complessa e incredibilmente affascinante. Reduce dal successo critico e di pubblico di Essere John Malkovich, Jonze, in sodalizio con la penna geniale di Charlie Kaufman, alza ulteriormente l'asticella dell'audacia narrativa, confezionando una pellicola che è al contempo saggio filosofico, commedia nera e thriller metafisico.

Un viaggio che si dipana su non meno di quattro differenti piani semantici – la cronaca di un furto, il processo creativo di una sceneggiatura, l'indagine sulla natura umana e l'eterno dilemma tra verità e finzione – il tutto sostenuto da interpretazioni assolutamente fuori dall’ordinario. Meryl Streep, in particolare, è in stato di grazia: la sua Susie Orlean non è solo un ritratto fedele dell'autrice, ma una figura complessa e stratificata, un crocevia di intelletto e vulnerabilità, capace di irradiare un fascino quasi ipnotico che travalica la mera caratterizzazione. È la sua presenza magnetica a fornire un'ancora emotiva al vortice di speculazioni e nevrosi che la sceneggiatura, vero e proprio vertice di scrittura, orchestra con maestria, facendo del confronto dialettico – non solo tra i personaggi, ma tra idee e generi – un punto cardinale.

La storia è divisa in quattro sezioni, seguendo la pista di quattro personaggi distinti ma legati l’uno all’altro dalle vicende narrate, come filamenti di una complessa rete neuronale. Charlie e Donald Kaufman, (entrambi interpretati da un Nicolas Cage in un tour de force attoriale che è già di per sé un manifesto metacinematografico) sono due fratelli sceneggiatori in crisi creativa. Cage incarna con rara maestria due facce della stessa nevrosi autoriale: la paralisi autodistruttiva e l'ansia intellettuale di Charlie da un lato, e la spinta all'entertainment più volgare, l'ingenua ma irresistibile praticità di Donald dall'altro. La loro relazione simbiotica, fatta di invidia, dipendenza e una bizzarra forma di amore fraterno, diviene il cuore pulsante di una schizofrenia autoriale che Kaufman porta in scena con autoironia e dolore sincero.

Charlie in particolare deve scrivere una sceneggiatura da un romanzo di Susie Orlean sul potere narcolettico di alcune orchidee dal titolo “Il Ladro di Orchidee”, ma si innamora dell’autrice e non riesce a venire a capo della sceneggiatura, intrappolato nel suo stesso blocco creativo e nella sua incapacità di tradurre la realtà in finzione senza snaturarla. Il quarto personaggio è John Laroche, un ladro e truffatore di mezza tacca con una discreta dose di charme, che trova nella sua quasi selvaggia autenticità una filosofia di vita inaspettatamente profonda (interpretazione che è valsa a Chris Cooper l’Oscar per attore non protagonista). Laroche, con la sua energia quasi anarchica e il suo inattaccabile pragmatismo, diviene il catalizzatore, l'archetipo dell'uomo "adattato" per eccellenza, un paradosso vivente che smaschera le ipocrisie del mondo intellettuale e le convenzioni narrative.

Tutti e quattro i personaggi in gioco dovranno “adattarsi” l’uno all’altro e trovare una mediazione tra il loro io e quello del personaggio cui vanno ad interfacciarsi. Un adattamento non solo sul piano interpersonale, ma esistenziale e psicologico. Il titolo originale del film, “Adaptation”, è un calembour che gioca su un bivalente significato: l’adattamento darwiniano delle orchidee a qualsiasi habitat in cui esse vengano introdotte, e l’adattamento cinematografico del romanzo di Susie che i due sceneggiatori devono realizzare. E in questo gioco di specchi, la parola "adattamento" non è solo un doppio senso narrativo o un richiamo scientifico, ma il prisma attraverso cui il film riflette la condizione umana stessa. È l'urgenza di sopravvivere, di mutare pelle, sia che si tratti di una specie botanica che si aggrappa alla vita in un nuovo ambiente, sia che si tratti di uno sceneggiatore inaridito che deve piegarsi alle leggi del mercato o, più profondamente, che deve accettare il proprio io in divenire.

Gran parte del fulcro semantico del libro è incentrato sul concetto darwiniano di “adattamento” dunque, paradigmatica in questo senso la frase che John dice a Susie: “Il cambiamento non è una scelta, succede, e ti ritrovi diverso”. Una lapidaria verità che si erge a epigrafe di un'odissea esistenziale e creativa, un monito a lasciarsi fluire con la corrente inesorabile del divenire.

Un soggetto assolutamente geniale per un film che rompe ogni schema precostituito e diviene punto di rottura rispetto a certo tipo di cinema precotto cui Hollywood ci aveva abituato. Qui il genio di Kaufman esplode. La pellicola non si limita a infrangere la quarta parete; essa la ridicolizza, la ricostruisce, la smonta e la riassembla in un caleidoscopio di autoriferenzialità. È una feroce satira sul processo creativo, sull'ossessione per la "buona storia" e sul "blocco dello scrittore", tema che Charlie Kaufman ha esplorato con sadica precisione anche in altre opere, ma mai con tanta audacia da auto-includersi nella narrazione in una sorta di metanarrativa al quadrato. Il film diviene il suo stesso making-of, la sua stessa disperazione autoriale.

Un metalinguaggio, quello di Jonze e Kaufman, che si auto-interroga sul cinema e, in particolare, sul significato di fare cinema. Al di là della brillantezza formale, ciò che emerge è un'analisi quasi psicanalitica dell'artista, delle sue paure, delle sue nevrosi, della sua (in)capacità di tradurre il caos dell'esistenza in una narrazione coerente e fruibile. Il parallelismo con opere letterarie come Sei personaggi in cerca d'autore di Pirandello o le meta-narrazioni di Borges non è casuale: Adaptation è l'erede cinematografico di quella tradizione che scardina la diegesi per interrogare la natura stessa della finzione. Jonze e Kaufman, attraverso questa gemma postmoderna, ci invitano a riflettere non solo su cosa significhi "fare cinema", ma anche su cosa significhi "essere un autore" nell'epoca della riproducibilità tecnica e della fame di narrazioni.

La soluzione probabilmente è nel titolo del film: un feroce spirito di adattamento che permetta di conservare una minima linea di galleggiamento a qualsiasi costo, sopravvivendo al testo e alla furia delle avversità, anche quando queste provengono dalla propria stessa mente. Un'opera che, a distanza di anni, continua a stimolare, a divertire e a sfidare ogni aspettativa, confermando la sua posizione come uno dei film più originali e intellettualmente stimolanti del nuovo millennio.

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