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Il Miglio Verde

1999

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Da un romanzo di Stephen King, che negli anni ha saputo offrire una fonte inesauribile di narrazioni per il grande schermo, ancora un altro film palpitante di Frank Darabont, dopo l'indimenticabile epopea de Le Ali della Libertà. Darabont, con la sua sensibilità quasi unica nel panorama hollywoodiano, dimostra ancora una volta di saper cogliere l'anima più profonda e meno orrorifica della prosa del "Maestro", trasformando le sue intricate trame in affreschi umani di straordinaria risonanza emotiva e morale. La sua maestria non risiede tanto nell'adattamento fedele quanto nella capacità di distillare l'essenza tematica, focalizzandosi sulla resilienza dello spirito umano di fronte all'ingiustizia e alla disperazione.

Il miglio verde è, nella sua più cruda definizione, l’ultimo tratto di corridoio pavimentato di verde che percorrono i condannati alla sedia elettrica; ma nel lessico di Darabont e King, diviene molto più di un semplice passaggio fisico. È un sentiero di redenzione e di condanna, un crocevia di destini, dove il colore della speranza si tinge paradossalmente di un'ineluttabile ombra di morte, elevando il termine a una metafora potente dell'ultima, irreversibile marcia dell'uomo verso l'ignoto.

L’opera si staglia imponente per la sua ambizione e la sua impeccabile realizzazione: quasi tre ore di durata che scivolano via senza peso, sostenute da ricostruzioni storiche di Cold Mountain nel 1935, minuziose e credibili, che calano lo spettatore in un'America della Grande Depressione, fatta di segregazione, povertà e una giustizia spesso sommaria e perigliosa. Il rigore scenografico e la cura per i dettagli d'epoca conferiscono alla pellicola un'autenticità che trascende la mera ricostruzione, permeando ogni inquadratura di un'atmosfera palpabile di tensione e disillusione. Il merito va anche a un cast di attori sempre all’altezza, orchestrato con rara maestria, con l’eccellenza inossidabile di Tom Hanks, che incarna Paul Edgecomb con una dignità e una vulnerabilità che rendono il suo personaggio un simbolo della coscienza morale, un uomo intrappolato tra l'obbligo del suo ruolo e il grido della sua umanità. Al suo fianco, figure come David Morse, con la sua silenziosa integrità, e Doug Hutchison, che disegna un Percy Wetmore di un'odiosità quasi tangibile, contribuiscono a tessere una rete complessa di relazioni e conflitti.

In questo contesto di desolazione e rassegnazione, un gruppo di detenuti del penitenziario di Cold Mountain fa la conoscenza di John Coffey, un gigantesco omone dalla fisicità imponente ma dallo spirito di un bambino, dotato di poteri taumaturgici eccezionali. Il paradosso è straziante: John è stato condannato a morte perché accusato di aver violentato e ucciso due bambine, ma in realtà è un'anima purissima, un innocente la cui statura fisica nasconde un'infinita fragilità e una capacità di empatia che travalica il confine umano. La sua condanna è un'accusa diretta al sistema giudiziario, cieco e frettoloso, e al pregiudizio che spesso veste d'orrore l'ignoto. Il vero autore dell’atroce delitto, “Wild Bill” Wharton, figura di una crudeltà luciferina magistralmente interpretata da Sam Rockwell, finirà nello stesso carcere con altre accuse, rendendo l'ironia della sorte ancor più amara e la tragedia di Coffey ancora più insopportabile.

Con l’arrivo di John Coffey, i rapporti e le gerarchie all'interno delle anguste mura della prigione di Cold Mountain subiscono una trasformazione quasi alchemica. La sua presenza, così anomala e miracolosa, diventa l'occasione per fare breccia in un mondo dove ostilità e violenza caratterizzano i rapporti tra carcerieri e reclusi, costringendo ciascuno a confrontarsi con la propria concezione di giustizia, fede e compassione. La prigione si muta in un microcosmo dove il bene e il male non sono mai rigidamente definiti, ma si svelano nelle sfumature delle scelte umane di fronte a un'innocenza così eclatante e a un male così indomito. Il dilemma etico che si impone a Paul Edgecomb è il cuore pulsante del film: eseguire una sentenza che sa essere un'abominazione, o sfidare un sistema in cui egli stesso è un ingranaggio?

Splendida, anzi magistrale, è la mano di Darabont in regia. Come al solito, il suo stile è pulito, sobrio e per nulla ridondante, una cifra stilistica che riflette una profonda fiducia nella potenza della narrazione e nell'espressività degli attori. La sua visione non eccede mai in inutili formalismi o esibizionismi registici; al contrario, si pone al servizio della storia, catturando l’essenza più intima dell’emozione in scena e facendola arrivare dritta, senza filtri, al cuore dello spettatore. In questo senso, è fulminante la scena della guarigione della moglie del direttore del carcere, in cui Darabont esalta il concetto di "taumaturgia per sottrazione": è suggestivo il modo quasi etereo, eppure palpabilmente doloroso, in cui viene resa visivamente l’inalazione da parte di John del male contenuto nel corpo della donna, un'immagine che richiama antichi miti di sacrificio e purificazione, e che si avvale di una colonna sonora (di Thomas Newman) che sussurra più che urlare, amplificando l'atmosfera di sacro e profano. È una metafora potentissima della sua natura cristologica: un essere che assorbe la sofferenza del mondo, purificandolo ma condannandosi a un dolore che non gli appartiene.

La figura di John Coffey, creata dalla penna visionaria di Stephen King, incarnata con una potenza e una delicatezza inaudite dall’imponente Michael Clarke Duncan – in quella che rimarrà l'interpretazione definitiva della sua carriera – e santificata dalla regia empaticamente penetrante di Darabont, è il grande lascito iconografico di questo film. È più di un personaggio; è un archetipo, una sorta di logo emotivo e morale penetrato nell’immaginario collettivo di ogni appassionato di cinema. La sua statura fisica contrasta in modo struggente con la sua purezza infantile, rendendolo un simbolo universale dell'innocenza perseguitata e del sacrificio redentore. Il Miglio Verde non è solo un film sulla pena di morte, ma un'intensa meditazione sulla natura del bene e del male, sulla fede e sul dubbio, e sull'incapacità dell'uomo di riconoscere la divinità quando essa si manifesta nella forma più inaspettata e vulnerabile. La sua risonanza emotiva e il suo monito morale perdurano, ben oltre la visione, iscrivendolo di diritto tra i capolavori del cinema che sanno toccare l'anima.

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