Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Il mio piede sinistro

1989

Vota questo film

Media: 3.86 / 5

(7 voti)

Il corpo, talvolta, è una fortezza inespugnabile. Un'architettura di carne e ossa che imprigiona la coscienza, un labirinto biologico le cui mura sono le nostre stesse cellule. La storia del cinema, come quella della letteratura, è costellata di tentativi di evasione da questa prigione: fughe metafisiche, viaggi astrali, dissociazioni psicologiche. Ma poche opere hanno mai rappresentato la lotta per scardinare la serratura dall'interno con la stessa tellurica, rabbiosa e infine trionfale brutalità de Il mio piede sinistro. L'opera di Jim Sheridan non è semplicemente un film sulla disabilità; è un trattato sulla volontà, un poema epico sulla conquista di un singolo, misero centimetro di libertà espressiva, dove il grimaldello per forzare la cella è un arto contorto e disobbediente.

Al centro di questo universo, un buco nero di energia attoriale da cui nulla può sfuggire: Daniel Day-Lewis. Parlare della sua interpretazione di Christy Brown è quasi riduttivo, un esercizio di aggettivi inadeguati. Non è un'imitazione, né una performance nel senso convenzionale. È un'occupazione. Un'assimilazione fisica e spirituale che trascende il Metodo per approdare a qualcosa di più antico, quasi sciamanico. La leggenda narra del suo rifiuto di abbandonare la sedia a rotelle per tutta la durata delle riprese, del suo farsi imboccare e trasportare dalla troupe, ma questi non sono aneddoti da trivia cinematografico; sono le stigmate di un processo alchemico. Day-Lewis non interpreta un uomo con paralisi cerebrale; si trasmuta in un corpo che è un campo di battaglia, dove ogni muscolo è un traditore e ogni spasmo un ammutinamento. La sua performance è un assalto sensoriale che costringe lo spettatore a ricalibrare la propria percezione della fisicità, a sentire il peso morto di un braccio inerte, la frustrazione bruciante di una lingua incapace di articolare la poesia che ribolle nel cervello. In questo, la sua impresa è paragonabile forse solo al Jake LaMotta di De Niro in Toro Scatenato, un'altra discesa volontaria nell'inferno della carne per estrarne una verità artistica. Ma se LaMotta puniva il suo corpo sul ring, Christy Brown è punito dal suo fin dalla nascita, e la sua lotta non è per una cintura, ma per una singola parola.

Questa parola, "MOTHER", tracciata goffamente con un pezzo di gesso stretto tra le dita del piede sinistro, è l'atto di creazione primordiale del film. È il Big Bang di un'esistenza. In quel momento, Sheridan non sta filmando un biopic; sta mettendo in scena la nascita stessa del linguaggio, il momento demiurgico in cui il caos informe della coscienza trova un simbolo, un ordine, una via di fuga. È un'epifania che risuona con la potenza dei miti fondativi. E non è un caso che avvenga in una povera, caotica, straripante casa della Dublino operaia. L'Irlanda di Sheridan, ben prima del boom della Tigre Celtica, è un luogo di fango, carbone e cattolicesimo severo, ma anche di un'umanità viscerale e indomabile. La famiglia Brown non è un coro di angeli solidali. È un'entità chiassosa, imperfetta, a tratti brutale, tenuta insieme dalla monumentale forza gravitazionale della madre, Bridget (una Brenda Fricker da Oscar, il cui volto è una mappa di fatica e amore incondizionato), e dalla ruvida approvazione del padre (il grande Ray McAnally, nella sua ultima, magnifica interpretazione), un uomo forgiato dalla stessa durezza della vita che ha quasi spezzato suo figlio.

In questo contesto, la figura di Christy Brown acquista una risonanza che va oltre la sua condizione. Diventa un archetipo dell'artista irlandese, un erede diretto di quella tradizione letteraria che ha fatto della paralisi, fisica e spirituale, il suo tema centrale. Non si può guardare Christy lottare per dipingere o scrivere senza pensare ai personaggi di James Joyce, intrappolati nella Dublino stagnante di Gente di Dublino, o, in modo ancora più profondo, agli antieroi di Samuel Beckett. Come i protagonisti beckettiani, Christy è confinato in un corpo che non risponde, in una situazione esistenziale assurda. Eppure, proprio come loro, trova nel linguaggio – prima pittorico, poi letterario – non una cura, ma una testimonianza. Un modo per dire "Io sono qui", nonostante tutto. La sua autobiografia, da cui il film è tratto, è il suo personalissimo "Non posso continuare, continuerò". La sua rabbia, la sua lussuria, il suo alcolismo, la sua disperazione non vengono edulcorati. Sheridan si rifiuta di santificarlo, e in questo sta la grandezza del film. Christy non è un modello di ispirazione zuccherosa; è un essere umano complesso, spinoso, spesso insopportabile, la cui genialità è intrecciata in modo inestricabile con il suo dolore.

La regia di Sheridan è un capolavoro di anti-retorica. La macchina da presa si incolla al punto di vista di Christy, spesso posizionata in basso, a livello del suolo, costringendoci a condividere la sua prospettiva sul mondo degli "eretti". I flashback sulla sua infanzia, dominati da una fotografia più calda e quasi sognante, non servono a creare nostalgia, ma a costruire le fondamenta emotive della sua identità, a mostrarci la genesi della sua resilienza. La sceneggiatura, scritta da Sheridan con Shane Connaughton, è un miracolo di equilibrio, capace di passare da un umorismo nero e irriverente a momenti di pathos straziante senza mai una nota falsa. Il dialogo ha la musicalità e la crudezza della parlata dublinese, un fiume di imprecazioni, affetto e battute fulminanti che funge da colonna sonora della vita dei Brown.

Il film esplora anche, con una maturità rara, il tema del desiderio. La brama di Christy per un contatto fisico, per un amore che non sia solo pietà o ammirazione, è palpabile e dolorosa. La sua infatuazione per la dottoressa Eileen Cole (Fiona Shaw) è un passaggio narrativo crudele e necessario, che mostra come la conquista dell'espressione artistica non coincida automaticamente con l'appagamento emotivo. Il suo corpo può essere un veicolo per l'arte, ma rimane una barriera invalicabile per quel tipo di intimità che anela. Sarà solo con l'infermiera Mary Carr, una donna che lo vede prima come uomo e poi come genio storpio, che Christy troverà una forma di pace, un amore pragmatico e non idealizzato.

Il mio piede sinistro è, in definitiva, un film che celebra il trionfo non sul corpo, ma attraverso il corpo. Rifiuta la dicotomia cartesiana tra mente e materia, mostrando come la coscienza di Christy sia inestricabilmente forgiata dalla sua lotta fisica. Il suo piede non è solo uno strumento, ma il simbolo di una volontà capace di trasformare la più crudele delle maledizioni in un dono. È la prova che l'impulso creativo umano è una forza della natura, capace di trovare la crepa più sottile nella prigione della realtà per far filtrare la luce. Un'opera d'arte non è fatta di intenzioni, ma di azioni. E l'azione di un singolo piede contro la tela o la macchina da scrivere si rivela qui più potente di un esercito, un gesto di auto-creazione che eleva un biopic a parabola universale, un monolito ieratico nel pantheon del cinema sulla resilienza dello spirito.

Galleria

Immagine della galleria 1
Immagine della galleria 2
Immagine della galleria 3
Immagine della galleria 4
Immagine della galleria 5
Immagine della galleria 6

Commenti

Loading comments...