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Il Mondo di Apu

1959

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Dopo Pather Panchali (Il lamento sul sentiero) e Aparajito (L’invitto), “Il mondo di Apu” è il terzo film della celeberrima saga di Apu del regista indiano (nativo bengalese) Satyajit Ray.

Forse dei tre è quello più occidentale nelle pulsioni psicologiche del protagonista, sicuramente il più affascinante. Questa "occidentalità" non è una mera scelta stilistica, ma piuttosto un'esplorazione profonda di archetipi umani che trascendono il Bengala rurale per approdare a una dimensione universale. Apu, qui, non è più solo il ragazzo cresciuto tra i campi di kash e i riti secolari; è l'intellettuale sradicato, l'artista in potenza che lotta con la disillusione e la ricerca di un significato in un mondo che sembra rifiutarlo. La sua è una crisi esistenziale che potrebbe benissimo abitare le pagine di un Dostoevskij o le tele di un Hopper, un'anima sensibile schiacciata dal peso delle aspettative e dalla fragilità della felicità. È proprio questa vulnerabilità, questa ricerca incessante di un'identità al di là delle convenzioni sociali, che rende Apu un personaggio eternamente moderno, un ponte tra la spiritualità orientale e le ansie dell'uomo contemporaneo.

La storia è quella di Apu, spiantato scrittore senza lavoro, che sposa la bellissima Aparna. Il matrimonio improvviso con la luminosa Aparna, interpretata da una giovanissima e indimenticabile Sharmila Tagore al suo debutto sullo schermo, è il fulcro di una breve ma folgorante parentesi di felicità. La loro unione, nata da un atto di altruismo e non da un amore preesistente, fiorisce in una chimica palpabile, intrisa di una tenerezza quasi effimera, come un sogno destinato a svanire. E svanisce, con la brutalità inaudita della morte di Aparna durante il parto, un evento che non è solo una tragedia, ma un cataclisma interiore per Apu. La sua disperazione non è urlata, ma si insinua, si incista, trasformandosi in una negazione totale, un rifiuto patologico del figlio che è, ai suoi occhi, la personificazione vivente del dolore, la causa involontaria della sua perdita inestimabile. La donna morirà di parto dando alla luce suo figlio e Apu si rifiuterà di vedere il bambino fino al suo quinto anno d’età. Questo esilio autoimposto dall'affetto paterno è il cuore pulsante del dramma, una ferita aperta che Satyajit Ray indaga con una delicatezza psicologica che ricorda Bergman o Truffaut nella loro esplorazione delle dinamiche familiari e del trauma irrisolto.

Ne nascerà uno struggente rapporto tra padre e figlio che sarà il fulcro della narrazione. Il percorso che conduce al ricongiungimento con il piccolo Kajal (il cui nome significa "kohl," trucco nero per gli occhi, spesso associato a protezione e bellezza negli occhi dei bambini, un dettaglio non casuale) è un viaggio iniziatico per Apu. Non è un semplice riavvicinamento, ma una faticosa risalita dagli abissi dell'auto-commiserazione e della reclusione emotiva. Ray, con la sua inimitabile regia, ci mostra il graduale disgelo del cuore di Apu, le prime interazioni goffe e poi, via via, l'emergere di un legame puro, non contaminato dalle convenzioni, ma forgiato nella reciproca necessità. Il figlio diventa l'ancora, il catalizzatore della rinascita, il ponte che riconnette Apu alla vita, alla responsabilità e, in ultima analisi, alla speranza di un futuro. Questo rapporto, intessuto di silenzi eloquenti, sguardi fugaci e piccoli gesti di affetto, è la vera apoteesi del film, una testimonianza della resilienza dello spirito umano e della forza redentrice dell'amore filiale.

Un film di una raffinatezza stilistica ineguagliata, dove espressionismo e neorealismo si fondono per dar vita ad un’opera di commovente bellezza. E qui, il genio di Ray si manifesta nella sua piena maturità. La sua "raffinatezza stilistica ineguagliata" non è un mero esercizio di stile, ma la tessitura di un linguaggio cinematografico che assorbe e riflette il tumulto interiore di Apu e la realtà circostante. Il neorealismo, mutuato dalla grande lezione italiana di Rossellini e De Sica, si manifesta nell'attenzione meticolosa ai dettagli quotidiani, nell'uso di attori spesso non professionisti (come il giovanissimo Alok Chakraborty nei panni di Kajal, la cui spontaneità è disarmante), nella scelta di girare in location autentiche che vibrano di una vita propria, dai vicoli affollati di Calcutta agli spazi rurali del ritorno alle origini. Ma a questa adesione al reale si sovrappone, in un contrappunto sublime, un espressionismo discreto ma potente. L'uso suggestivo delle ombre, le composizioni che isolano Apu nella sua solitudine, i primi piani che indagano la profondità del suo sguardo tormentato – ogni inquadratura, frutto del virtuosismo del direttore della fotografia Subrata Mitra, contribuisce a dipingere un paesaggio emotivo denso e complesso. Non è l'esasperazione visiva dei maestri tedeschi, ma una sottile stilizzazione che amplifica le sensazioni: la claustrofobia della sua stanza di scrittore, l'immensità desolata dei paesaggi che riflettono il suo vuoto interiore dopo la perdita, la luce che progressivamente si riaccende nei suoi occhi man mano che il legame con Kajal si rafforza. È questa fusione, questa armonia tra l'osservazione sociale e l'indagine psicologica, che eleva il film a capolavoro universale. La colonna sonora di Ravi Shankar, eterea e malinconica, tesse un altro strato di significato, un lamento ancestrale che accompagna le gioie effimere e i dolori profondi. Il film non è solo una storia, ma un'esperienza sensoriale completa, una sinfonia visiva ed emotiva.

Un film che rimane a lungo nel cuore, sì, ma che fa molto di più: scava nell'anima. "Il Mondo di Apu" chiude magistralmente una trilogia che non è solo la storia di un uomo, ma l'epopea di un'intera nazione in trasformazione, un ponte tra la tradizione e la modernità, tra l'innocenza dell'infanzia e la complessità dell'età adulta. È un testamento alla capacità del cinema di trascendere le barriere culturali e linguistiche, di toccare corde universali con una grazia e una profondità rare. Ray, con questa sua opera, non ci offre solo un film; ci dona uno specchio in cui riflettere le nostre stesse perdite, le nostre rinascite e la perpetua ricerca di un significato nell'inesauribile ciclo della vita. È un'opera che, con il passare degli anni, non smette di rivelare nuove sfumature, confermando il suo status di pietra miliare non solo del cinema indiano, ma dell'arte cinematografica mondiale.

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