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Il Nastro Bianco

2009

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Un’opera multitestuale caratterizzata da una raffinata cura per i particolari, una fotografia sublimata in un bianco e nero inquieto e fuggente, un infinito amore per ogni singolo personaggio presentato in scena, un’attenzione maniacale a dialoghi e situazione affettive. Il monocromatismo di Haneke non è una semplice scelta stilistica, ma un potente strumento di decostruzione della realtà: esso spoglia il paesaggio e i volti di ogni superficiale cromatismo, esponendone l’essenza più cruda, quasi a voler riflettere la purezza corrosa, l'innocenza perduta, o mai davvero esistita, in un mondo che si avvia verso un’apocalisse di cui non è ancora consapevole. La luce, ora tagliente come una lama, ora avvolgente come un sudario, scolpisce i volti e gli animi, elevando ogni inquadratura a un’icona pittorica di austera bellezza e profonda inquietudine. Questo bianco e nero ci proietta non solo in un'epoca passata, ma in una dimensione atemporale di analisi morale, richiamando la severità visiva del cinema di Dreyer o dell'espressionismo tedesco, senza però mai scivolare nell'astrazione, mantenendo un ancoraggio granitico alla realtà.

Il film di Haneke incanta con nobile sobrietà e cristallino lirismo iconografico. La sua cifra stilistica è inconfondibile: una padronanza della messa in scena che rifiuta ogni compiacimento, ogni facile catarsi, per sondare gli abissi dell'animo umano con una lucidità quasi chirurgica. Come in altri suoi capolavori, da Funny Games a Caché, Haneke non offre risposte consolatorie, ma pone interrogativi scomodi, costringendo lo spettatore a confrontarsi con la violenza latente, non quella spettacolarizzata, ma quella che fermenta nelle crepe di una società apparentemente ordinata. La sua è una violenza silenziosa, psicologica, che corrode dall'interno, e che qui, ne Il Nastro Bianco, si manifesta attraverso atti inspiegabili la cui vera genesi resta avvolta in un’ombra densa e perturbante.

Fa un po’ rabbia pensare che cineasti di questa caratura non siano purtroppo più italiani come un tempo, ma austriaci, tedeschi, spagnoli, turchi, cinesi… E’ davvero difficile cercare di collocare Das weisse Band in una tassonomia che lo possa identificare: ha i connotati del film storico, ma è anche una mystery story, ha i crismi di un melodramma neorealista ma lo si potrebbe associare anche ad un documento antropologico. Ma la sua più profonda vocazione è quella di una parabola allegorica, un'indagine quasi kafkiana sulle radici del male e sull'autoritarismo che serpeggia in ogni sistema sociale, anche il più piccolo e apparentemente innocuo. La sua natura sfuggente non è un difetto, ma un pregio intrinseco: Haneke ci nega la rassicurante architettura della narrazione tradizionale, rifiutando di risolvere il "chi" o il "come", per focalizzarsi sul "perché" un tale humus di violenza possa attecchire. L'enigma non è un espediente narrativo fine a sé stesso, ma il veicolo per una più profonda esplorazione della condizione umana e delle sue derive.

La storia è ambientata in un villaggio rurale nel nord della Germania del 1911. Questo dettaglio temporale non è affatto casuale, ma di cruciale importanza. Siamo alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, in un momento storico in cui la Germania, apparentemente placida, sta covando le ceneri di ciò che esploderà decenni dopo. Haneke stesso ha esplicitamente dichiarato l'intento di esplorare le radici del totalitarismo e della violenza sociale, suggerendo che i semi del male piantati in quella generazione, attraverso l'educazione rigida, la repressione emotiva e l'ipocrisia religiosa, avrebbero poi germogliato in forme ben più mostruose. Il "nastro bianco" non è solo un simbolo di purezza imposta e di punizione, ma una metafora della purezza forzata che cova dentro di sé i germi della rivolta e della violenza.

La vita del villaggio è scandita dai ritmi lavorativi nei campi. Il Barone è una sorta di Demiurgo che presiede i suoi possedimenti e ne amministra i lavori tra i suoi fattori. Ma al di là del Barone, il vero potere è distribuito tra le figure istituzionali del villaggio: il Pastore, che impone una disciplina ferrea e spesso crudele sui suoi figli, il Dottore, simbolo di una morale corrotta e di un abuso di potere mascherato, e il Maestro, narratore e testimone degli eventi, unico personaggio a cercare, invano, una qualche comprensione.

Una serie di avvenimenti inquietanti e inspiegabili turberà la routine degli abitanti del villaggio e gradualmente frantumerà ogni certezza e ogni legame affettivo. Questi eventi – misteriosi incidenti, aggressioni, atti di sadismo – non sono singoli crimini, ma manifestazioni di un malessere collettivo che si annida sotto la superficie della rispettabilità borghese e del bigottismo religioso. I bambini, costretti a crescere sotto il giogo di un’educazione repressiva e punitiva, diventano sia vittime che carnefici, ereditando e perpetuando il ciclo di violenza e ipocrisia. La violenza che subiscono (le punizioni fisiche, l'isolamento, la mortificazione) si riverbera in quella che infliggono, spesso con una fredda, distaccata crudeltà che è il vero cuore pulsante del film. Haneke dipinge un affresco dove la cosiddetta "innocenza" infantile è macchiata non da una malvagità innata, ma dalla tossicità di un ambiente che soffoca ogni genuina espressione umana.

Un vero e proprio affresco della vita nelle campagne, ma anche un potente disegno delle relazioni familiari di inizio secolo e delle sottili relazioni che si intrecciano tra i vari rappresentanti della comunità: il maestro, il precettore, il medico, il pastore, la puerpera, la governante. Ognuno è un tassello di un sistema interconnesso, un microcosmo che riflette le tensioni e le contraddizioni di una nazione intera. La sua è una dissezione antropologica impietosa, che svela le fessure morali di una società sull'orlo del baratro, dove l'autorità non è garanzia di giustizia, la fede non è sinonimo di moralità, e il silenzio complice è la più grande delle condanne. In questo senso, Il Nastro Bianco si erge come una delle più acute e perturbanti analisi delle origini del male nel XX secolo, un monito sulla pericolosità dell'obbedienza cieca e della repressione emotiva.

Un’opera di inesauribile estro artistico che consacra uno dei più interessanti registi contemporanei a vero e proprio Maestro, capace di scavare nelle pieghe più oscure della psiche umana con una rigorosità intellettuale e una potenza visiva che lasciano un segno indelebile, costringendoci a riflettere non solo sul passato, ma sulle ombre che ancora oggi si proiettano sul nostro presente.

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