Il navigatore
1924
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Registi
Un leviatano d'acciaio alla deriva nell'infinito blu del Pacifico. Dentro, due automi dell'alta società, due esemplari di homo inutilis della Jazz Age, costretti a confrontarsi con il funzionamento primario del mondo. "Il navigatore" (1924) non è semplicemente una delle vette comiche di Buster Keaton; è un poema meccanico sulla rieducazione dell'uomo moderno, un trattato esistenziale mascherato da slapstick, una parabola sull'adattamento che avrebbe fatto gongolare Darwin.
Al centro del meccanismo narrativo, come un fantasma nella macchina, c'è Rollo Treadway, interpretato da un Keaton al culmine della sua grazia geometrica. Rollo è l'apoteosi dell'uomo-accessorio, un rampollo così ricco e viziato da aver delegato ogni interazione con la realtà. La sua celebre proposta di matrimonio a Betsy, la sua vicina di casa e oggetto del suo affetto astratto, è un capolavoro di impotenza pragmatica: "Sposeresti me?", chiede indicando se stesso, per poi attraversare la strada e ripetere la domanda alla ragazza. Non sa neanche accendere una sigaretta. In un'epoca che glorificava l'azione, l'industria e il self-made man, Rollo è un anacronismo vivente, un prodotto dell'agio che Thorstein Veblen aveva sezionato nella sua "Teoria della classe agiata". È l'opposto speculare del Vagabondo chapliniano: se Charlot è un reietto che lotta per ascendere, Rollo è un privilegiato che deve imparare a discendere, a sporcarsi le mani con la materia bruta dell'esistenza.
Il destino, con un'ironia degna di O. Henry, lo scaraventa, insieme alla stessa Betsy che lo ha appena rifiutato, a bordo della Navigator, una nave passeggeri deserta e abbandonata alla deriva. E qui il film trascende la commedia di situazione per diventare qualcos'altro: un'epica da camera per due personaggi in un labirinto di metallo. La nave non è un semplice fondale, è il terzo protagonista, un colosso indifferente, un universo di leve, tubi, oblò e ponti che i due naufraghi devono decifrare come se fosse un testo alieno. La prima metà del film è una magistrale sinfonia del disorientamento. Keaton e Kathryn McGuire vagano per i ponti deserti e le sale sfarzose, un Adamo ed Eva post-industriali espulsi dal giardino dell'Eden della servitù. Le loro goffe interazioni con gli oggetti quotidiani diventano la fonte di gag che sono, in realtà, esperimenti di fisica applicata.
La genialità di Keaton, e ciò che lo eleva al di sopra di quasi ogni altro comico, è che le sue gag non nascono mai dal nulla. Sono la conseguenza logica, quasi matematica, di un problema. Come si cucina la colazione in una cucina di dimensioni industriali? Rollo cerca di far bollire un uovo in un calderone da ristorante grande quanto lui. Il problema è assurdo, la soluzione è letterale, il risultato è una comicità che nasce dall'attrito tra la scala umana e quella disumana della tecnologia. In questo, Keaton è un cubista del movimento: scompone un'azione nelle sue componenti geometriche e la riassembla in una forma nuova e straniante. La sua impassibile "Great Stone Face" non è assenza di emozione, ma la maschera di pura concentrazione di un uomo che sta risolvendo un'equazione con il proprio corpo, un Sisifo che, invece di un masso, spinge l'assurdità del reale.
Mentre Chaplin chiede la nostra pietà, Keaton esige la nostra ammirazione per la sua tenacia. "Il navigatore" è il paradigma di questa filosofia. Rollo e Betsy non si arrendono; imparano. Trasformano il caos in ordine attraverso l'ingegno. Costruiscono marchingegni con corde e carrucole per servirsi la colazione a distanza. Imparano a muoversi in sincrono, in una coreografia che trasforma la loro iniziale incompatibilità in una partnership efficiente. È una catarsi silenziosa e pragmatica: diventano i padroni della loro prigione d'acciaio, la navigano, la comprendono. Il titolo, "Il navigatore", non si riferisce solo all'atto di pilotare una nave, ma all'abilità di orientarsi nel mondo.
La produzione stessa del film è una leggenda che eguaglia la sua narrazione. Keaton, che co-diresse il film con Donald Crisp (anche se l'impronta estetica è inconfondibilmente keatoniana), acquistò una vera nave destinata alla demolizione, la USAT Buford, per una cifra irrisoria. Questa concretezza, questo rapporto tattile con un oggetto reale e monumentale, è ciò che conferisce al film il suo peso specifico. Le scene subacquee, in cui Keaton in un ingombrante scafandro da palombaro tenta di riparare l'elica, sono un momento di pionierismo cinematografico mozzafiato. Girate nel lago Tahoe, con limiti di tempo dettati dalla luce e dalla resistenza fisica, queste sequenze possiedono una bellezza onirica e spettrale che sembra anticipare le esplorazioni di Jacques Cousteau. Keaton stesso rischiò quasi di annegare, ma ciò che emerge sullo schermo è un senso di meraviglia e di pericolo autentico, un'incursione in un regno alieno dove le leggi della fisica sono riscritte. È un interludio quasi surrealista, un viaggio nel profondo, sia letterale che metaforico, prima della risalita finale.
Naturalmente, nessuna analisi di "Il navigatore" può ignorare l'arrivo dei "cannibali". Per un occhio moderno, la rappresentazione di nativi polinesiani come selvaggi primitivi in blackface è problematica e palesemente figlia del suo tempo, un residuo di certa letteratura d'avventura ottocentesca alla H. Rider Haggard. Tuttavia, all'interno dell'ermeneutica del film, la loro funzione è meno antropologica e più archetipica. Non sono personaggi, ma una forza della natura, un'eruzione del caos primordiale che mette alla prova finale l'ordine che Rollo e Betsy hanno faticosamente costruito. Sono l'antitesi della macchina: istintivi, disorganizzati, una marea umana che minaccia di sommergere la logica e la meccanica. La loro apparizione serve a catalizzare la trasformazione definitiva di Rollo. L'inetto damerino diventa un generale, un condottiero che utilizza ogni risorsa della nave – cannoni da segnalazione, tubi dell'acqua, persino le ancore – per orchestrare una difesa ingegnosa. È l'uomo che, dopo aver imparato a padroneggiare la macchina per il proprio sostentamento, ora la brandisce come un'arma per la sopravvivenza.
Il salvataggio finale, operato da un sottomarino che emerge dalle profondità come un vero e proprio deus ex machina, è la chiosa perfetta a questo poema sull'era industriale. Dopo aver affrontato l'indifferenza della tecnologia e la minaccia della natura primitiva, i nostri eroi vengono tratti in salvo da un'altra, più sofisticata, macchina. Il cerchio si chiude. L'uomo moderno, per sopravvivere, non può sfuggire alla tecnologia, ma deve imparare a comprenderla, a domarla, a farla sua alleata.
"Il navigatore" rimane un'opera di una modernità sconcertante. È un film che contiene in sé la precisione di un diagramma di Mondrian, l'umorismo assurdo di un'opera di Ionesco e la solitudine esistenziale di un personaggio di Beckett che, invece di aspettare Godot, si ritrova a dover riparare un motore. Buster Keaton non costruisce solo gag; costruisce mondi, sistemi logici completi in cui l'essere umano, piccolo ma indomabile, si misura con la vastità dell'universo, sia esso un oceano, una locomotiva o una casa prefabbricata. E in questa lotta impari, con il volto impassibile e il corpo elettrico, trova una forma di grazia e di significato che continua, a un secolo di distanza, a essere una delle più pure e intelligenti espressioni che il cinema abbia mai prodotto.
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