Il Padrino
1972
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Regista
Il Padrino è sicuramente uno dei film più amati della storia del cinema, una di quelle rare opere che trascendono la mera narrazione per assurgere a pietra miliare della cultura popolare e dell'arte cinematografica. La sua impronta è indelebile, un epos moderno che continua a risuonare, generazione dopo generazione, per la sua atemporalità e la profondità dei suoi archetipi.
Premiato al botteghino con un successo fragoroso, fu osannato anche dalla critica che riconobbe, quasi unanimemente, nella caratterizzazione dei personaggi – scolpita con la precisione di un cesellatore –, nella forza epica e quasi shakespeariana della narrazione e nella sontuosa, meticolosa ricostruzione scenografica, la grandezza incommensurabile del lavoro di Francis Ford Coppola. Il suo genio, inizialmente messo in discussione dalla stessa produzione della Paramount che vide in lui un giovane regista fin troppo ambizioso per un progetto di tale portata, si manifestò in una visione audace, capace di trasformare un best-seller popolare in un’opera d’arte lirica e tragica.
Francis Ford Coppola dunque spinge la sua indagine cinematografica nel mondo della mafia italo-americana, un universo spesso stereotipato, conferendogli una dignità quasi antropologica, prendendo spunto dal romanzo di Mario Puzo. Il rapporto tra i due, Coppola e Puzo, co-sceneggiatori, fu cruciale: fu Puzo a fornire la struttura narrativa e l'autenticità dei dialoghi, mentre Coppola infuse il suo sguardo autoriale, elevando la storia a dramma universale sulla famiglia, il potere e la corruzione del sogno americano. La sua caparbietà nel volere attori allora non graditi alla produzione, come Brando e Pacino, si rivelò una scommessa vinta, un colpo da maestro che ha plasmato l'immaginario collettivo.
Strepitose le interpretazioni di Al Pacino e Marlon Brando che, con la loro magnetica presenza, danno lustro a una storia davvero divenuta universale. Brando, con quelle gote rigonfiate, la voce impastata e un’aura di stanca autorevolezza, diviene istantaneamente il prototipo, quasi mitologico, del boss malavitoso, un'icona la cui ombra si proietta su ogni successiva rappresentazione del genere. La sua performance, frutto anche di un metodo attoriale quasi mimetico – il celebre batuffolo di cotone per alterare il viso, l'improvvisazione di certi gesti – è un monumento di recitazione. Accanto a lui, Al Pacino compie una delle trasformazioni più graduali e sconvolgenti della storia del cinema: da eroe di guerra dal volto pulito e gli ideali cristallini a gelido stratega, la cui innocenza si corrode progressivamente sotto il peso del potere e della violenza. Non meno memorabili sono le prove di James Caan nel ruolo di Sonny, l'impulsivo e leale primogenito, e di Robert Duvall nei panni di Tom Hagen, l'avvocato e consigliere, figura stoica e ambigua.
La storia narra dell’ascesa della famiglia Corleone, nucleo familiare strettosi intorno al patriarca Vito, emigrato dalla Sicilia a New York da bambino e divenuto, con implacabile determinazione, capo di un’organizzazione criminale ramificata in molti business apparentemente innocui ma profondamente illeciti: dal gioco d’azzardo alla prostituzione, dal traffico di superalcolici durante il proibizionismo alla gestione dei sindacati. L'epopea dei Corleone non si limita alla cronaca degli affari malavitosi, ma si addentra con toccante intimità negli amori taciuti, nelle faide familiari alimentate da onore e vendetta, nelle ferree tradizioni tramandate di padre in figlio e nella routine giornaliera che maschera la brutalità del loro mondo. La mafia qui non è solo criminalità, ma una sorta di contro-stato, una società parallela con le sue leggi, i suoi riti e le sue gerarchie, che offre una rete di protezione e giustizia al di fuori di quella ufficiale, spesso corrotta e inefficace.
Don Vito ha tre figli: Mike, eroe di guerra destinato ad un futuro da avvocato e a una vita integrata, Sonny e Fredo, quest’ultimo il più fragile e vulnerabile, già inseriti nell’organizzazione di Don Vito. È la dinamica di questa famiglia, disfunzionale ma legata da un affetto viscerale, a costituire il vero fulcro del dramma. In seguito al rifiuto di Don Vito di entrare nel mercato della droga rivolto ad un potente uomo della famiglia Tattaglia, in nome di un codice d'onore che la nuova criminalità sta lentamente erodendo, la famiglia Corleone dovrà subire la ritorsione dei rivali.
In un attentato, orchestrato con spietata efficienza, Don Vito rimane gravemente ferito, scatenando una reazione a catena che segnerà il destino di Michael. È lui, il figlio estraneo agli affari di famiglia, che, quasi per un oscuro richiamo del sangue, s’incarica di uccidere il responsabile dell'attentato e il capitano di polizia colluso, un atto di violenza che rappresenta il suo battesimo di fuoco, la sua definitiva discesa in un mondo dal quale credeva di essere immune. Mike in seguito dovrà riparare in Sicilia, una terra ancestrale e mitica, dove si confronta con le radici della sua stirpe e trova un amore effimero ma puro, mentre le acque turbolente della guerra tra famiglie si placano.
Una volta fatto ritorno a New York, Mike non è più il ragazzo timido e remissivo che voleva fare l’avvocato, l'innocente testimone, ma è ormai il nuovo Padrino della Famiglia. La sua trasformazione è completa e irreversibile, un Faust moderno che vende l'anima per salvare la sua stirpe e che si scopre più spietato e calcolatore del padre. Gestirà gli affari a modo suo, con una logica fredda e inesorabile, e comincerà la sua attività con un'epurazione metodica e simbolica, sterminando uno per uno i rivali durante il battesimo di suo nipote, in un montaggio alternato che è divenuto leggenda cinematografica, sigillando per sempre il suo destino di uomo solo e potente.
Coppola, con un tocco da maestro, non si limita a mostrarci queste persone, ma ce le fa amare, o quantomeno ce le fa comprendere nella loro complessa umanità. Ci rende avidi di sapere cosa accade nelle loro vite, ci rende partecipi dei loro fallimenti e delle loro vittorie, trasformando il pubblico in un silenzioso complice. Questa immersione totale, supportata dalla fotografia magistrale di Gordon Willis, il "Principe delle Tenebre" che avvolge la scena in chiaroscuri caravaggeschi, e dalla colonna sonora malinconica e indimenticabile di Nino Rota, crea un'atmosfera unica.
La grandezza incommensurabile de Il Padrino è proprio questa: un pathos incommensurabile che si instaura tra i personaggi sullo schermo e lo spettatore che ne segue le vicende, quasi ipnotizzato dall’evolversi della vicenda e impossibilitato ad emettere giudizi morali. Non è glorificazione della criminalità, ma un’analisi spietata della natura del potere, dell’eredità e del sacrificio, che ci costringe a confrontarci con le ombre dell'animo umano, rivelando la tragica grandezza di un clan che è, a suo modo, il riflesso oscuro della società che lo circonda. Il Padrino non è solo un film, ma un'esperienza catartica, una riflessione universale sulla famiglia, la lealtà e il prezzo dell'ambizione, che continua a brillare come uno dei vertici insuperabili della settima arte.
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