Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Il paziente inglese

1996

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Un corpo non è che una mappa. Un atlante di cicatrici, un registro di piaceri, un archivio di traumi. La pelle, un palinsesto su cui ogni tocco, ogni ferita, ogni febbre scrive una storia. Anthony Minghella, orchestrando il poema frammentario di Michael Ondaatje, lo comprese con una lucidità quasi terrificante, e costruì Il paziente inglese non tanto come un film, quanto come un atto di ermeneutica sentimentale. Al centro, un uomo senza nome, senza volto, carbonizzato al punto da essere ridotto a pura essenza narrativa. È un testo da decifrare, una pergamena bruciata che l'infermiera Hana (una Juliette Binoche che incarna la grazia ferita del dopoguerra) legge con la devozione di un amanuense medievale, somministrando morfina come se fosse inchiostro per far riaffiorare le memorie sbiadite.

Il film opera su un doppio binario che è la sua vera, vertiginosa grandezza. Da un lato, l'epica maestosa, quasi anacronistica, che evoca la magniloquenza visiva di David Lean. Il deserto del Sahara, fotografato da John Seale con la grazia pittorica di un acquerello di Turner, non è un semplice sfondo, ma un'entità metafisica. È la tabula rasa su cui i personaggi sperano di poter cancellare le proprie identiche nazionali, i propri passati, i propri obblighi. È un luogo pre-politico, dove la Royal Geographical Society finanzia spedizioni che sono, in realtà, fughe esistenziali. In questo, il deserto di Minghella è l'antitesi di quello di Lawrence d'Arabia. Se per Lean la sabbia era il palcoscenico per la forgiatura di un mito nazionale e personale, per Minghella è il luogo dell'oblio, della dissoluzione dell'identità. Il Conte László Almásy (un Ralph Fiennes la cui aristocratica freddezza si scioglie in una passione incandescente) non vuole conquistare il deserto, ma perdersi in esso, diventare parte della sua immutabile topografia.

Dall'altro lato, confinato tra le mura di un monastero italiano in rovina, si svolge un Kammerspiel di una delicatezza straziante. Il macrocosmo della Seconda Guerra Mondiale, con le sue nazioni in lotta e i suoi confini ridisegnati col sangue, si contrae nel microcosmo di una stanza. Qui, il tempo si ferma. Le uniche battaglie sono quelle combattute contro il dolore e per la riconquista di un ricordo. La luce che filtra dalle finestre sbarrate crea un chiaroscuro caravaggesco, illuminando la polvere che danza nell'aria come le ceneri di un mondo distrutto. In questo limbo, quattro anime alla deriva trovano un fragile equilibrio: Hana, in fuga dal dolore di aver visto morire tutti coloro che amava; il paziente, che vive solo nel passato; Caravaggio (un Willem Dafoe sornione e mutilato), un ladro trasformato in spia a cui la guerra ha tolto i pollici, privandolo del suo "tocco", della sua identità; e Kip (Naveen Andrews), il geniere sikh, un uomo d'Oriente che smantella con perizia e calma serafica gli ordigni dell'Occidente, metafora vivente di un ordine mondiale in frantumi.

La struttura narrativa, un labirinto di flashback innescati da una parola, un oggetto, una frase letta da un libro, non è un mero artificio stilistico. È la rappresentazione cinematografica della memoria traumatica. Il montaggio di Walter Murch, un'opera di maieutica visiva, ci insegna che il passato non è una linea retta, ma un arcipelago di istanti incandescenti che riaffiorano senza preavviso. Il film è, in questo senso, una seduta psicanalitica, dove lo spettatore, insieme ad Hana, tenta di rimettere insieme i cocci di una vita, quella di Almásy, e per estensione, di un'intera civiltà. La storia d'amore tra il conte e Katharine Clifton (Kristin Scott Thomas, perfetta nel suo connubio di fragilità e determinazione) non è una semplice parentesi romantica nel conflitto bellico, ma la sua causa scatenante a livello personale. È una passione assoluta, eretica, che rigetta le convenzioni borghesi (il matrimonio, la lealtà) e le categorie geopolitiche (le nazionalità, le alleanze). Quando Almásy dichiara di odiare i paesi, esprime un desiderio profondamente modernista: quello di un'identità fluida, definita non dalla nascita o dal passaporto, ma dall'esperienza e dal desiderio.

La vera mappa del film non è quella del deserto, ma il libro di Erodoto che Almásy trasforma nel suo diario, nel suo zibaldone, incollando foto, disegni, foglie secche. È un oggetto-feticcio che ricorda il baule di Charles Foster Kane o la slitta "Rosebud". Contiene la chiave di tutto, il codice per decifrare un'esistenza. E al suo interno, la scoperta della "Caverna dei Nuotatori" non è solo un ritrovamento archeologico, ma una rivelazione quasi gnostica: la scoperta di un'arte primordiale, di un'umanità che esisteva prima delle nazioni, prima della storia come la conosciamo. È in quel grembo di roccia che gli amanti trovano il loro unico, effimero santuario, un luogo fuori dal tempo dove la loro passione può esistere nella sua forma più pura, prima che il mondo esterno, con i suoi eserciti e le sue paranoie, irrompa per distruggerla.

Siamo a metà degli anni '90. Il cinema indipendente americano, rinvigorito dal ciclone Pulp Fiction, celebrava l'ironia, la citazione pop, la decostruzione post-moderna dei generi. In questo panorama, Il paziente inglese apparve come una creatura proveniente da un'altra epoca. Fu un atto di fede quasi sconsiderato nel potere del melodramma classico, nella sincerità dei sentimenti, nella grandiosità della messa in scena. Fu la risposta colta e letteraria di Miramax al cinismo imperante, un film che non temeva di essere adulto, complesso, tragico e, soprattutto, romantico in un modo quasi doloroso. La sua trionfale notte degli Oscar (nove statuette, inclusa quella per il Miglior Film) non fu solo la vittoria di un film, ma la consacrazione di un intero modello produttivo e di una precisa visione estetica: il cinema come letteratura per immagini, capace di fondere l'introspezione psicologica con lo spettacolo mozzafiato.

Eppure, a rivederlo oggi, il film sfugge alla facile etichetta di "polpettone da Oscar". La sua modernità risiede proprio nella sua struttura frammentata e nella sua profonda malinconia. L'amore tra Hana e Kip, così tenero e cauto, funge da contrappunto a quello divorante e distruttivo di Almásy e Katharine. Se quest'ultimo è una tempesta di sabbia che tutto travolge, il primo è una piccola candela accesa tra le rovine, un fragile tentativo di ricostruzione. La scena in cui Kip mostra ad Hana gli affreschi di Piero della Francesca alla luce di un bengala è forse il cuore pulsante del film: un momento di pura bellezza strappata all'orrore, un'epifania artistica che illumina brevemente il buio, dimostrando che anche in un mondo a pezzi, l'umanità può ancora trovare un modo per guardare verso l'alto.

In definitiva, Il paziente inglese è un'elegia per un mondo di confini – geografici, morali, personali – e per la tragedia di coloro che hanno cercato di attraversarli. È un film sulla possessione: Katharine che dice "Voglio che tu mi dipinga sul mio corpo", Almásy che rivendica la fossetta alla base del suo collo come il "Bosphorus di Almásy". È un'archeologia del sentimento, dove ogni strato di memoria rimosso rivela una ferita più profonda. Il corpo bruciato del conte cessa di essere quello di un uomo per diventare il corpo martoriato dell'Europa stessa, e la sua storia, sussurrata a fatica in una stanza semibuia in Toscana, diventa il racconto febbrile e disperato di un intero continente che ha tentato di cancellare la propria mappa per poi scoprire, tra le fiamme, di non potersi liberare della propria storia.

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