Il pensionante: una storia della nebbia di Londra
1927
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Regista
Una spirale di nebbia avvolge un urlo silenzioso. Un volto femminile, terrorizzato, la bocca spalancata in un grido che non possiamo udire, riempie lo schermo. È l'incipit de Il pensionante, ma è anche molto di più: è il Big Bang di un universo cinematografico, la dichiarazione d'intenti di un giovane Alfred Hitchcock che, a soli 27 anni, sta forgiando un intero alfabeto dell'angoscia. Prima di questo film, Hitchcock era un regista di talento con un futuro promettente. Dopo, era già Hitchcock, il marchio, la cifra stilistica, l'architetto della suspense.
Immerso nelle atmosfere fuligginose di una Londra quasi mitologica, il film è un'opera di frontiera, un ponte gettato tra l'Espressionismo tedesco e il futuro thriller hollywoodiano. L'ombra di Fritz Lang e di F.W. Murnau si allunga su ogni inquadratura, ma non si tratta di una mera imitazione. Hitchcock non si limita a importare il chiaroscuro teutonico, le prospettive distorte e le scenografie che si fanno architettura dell'anima; lo innesta nel DNA del thriller psicologico, trasformando l'estetica in un dispositivo narrativo. La nebbia londinese non è solo un elemento atmosferico, è la metafora visiva della paranoia che serpeggia tra i cittadini, un velo che confonde i contorni tra innocenza e colpa, tra realtà e sospetto. Come nel Gabinetto del Dottor Caligari, lo spazio urbano è un riflesso della psiche tormentata dei suoi abitanti, un labirinto di vicoli e scale dove l'ignoto può manifestarsi a ogni angolo.
La trama, tratta dal romanzo di Marie Belloc Lowndes, è di una semplicità archetipica che funge da tela bianca per le ossessioni del regista. Un serial killer, "il Vendicatore", uccide giovani donne bionde, lasciando un biglietto firmato con un triangolo. In una pensione gestita da una famiglia della classe media, arriva un misterioso e affascinante pensionante, Jonathan Drew (un Ivor Novello dalla bellezza androgina e spettrale, a metà tra un eroe byroniano e un angelo caduto). Il suo comportamento eccentrico, le sue uscite notturne, la sua avversione per i ritratti di donne bionde, lo rendono immediatamente il sospettato numero uno, soprattutto agli occhi della padrona di casa e del geloso detective di polizia fidanzato con la figlia, Daisy, che è, ovviamente, bionda.
Qui nasce, quasi per caso, il tema più puro e duraturo dell'opera hitchcockiana: l'uomo sbagliato, il "falso colpevole". È un aneddoto produttivo a rivelare la genesi di questa ossessione tematica. Ivor Novello era all'epoca una delle più grandi star del cinema britannico, un idolo delle folle. Lo studio, la Gainsborough Pictures, impose a Hitchcock di non rendere il suo personaggio il vero assassino. Un dio del matinée non poteva essere l'incarnazione del male. Questa costrizione, che avrebbe potuto mutilare il film, si rivelò invece una benedizione creativa. Hitchcock fu costretto a concentrarsi non sull'identità del colpevole, ma sulla dinamica del sospetto. L'intera macchina cinematografica viene riorientata per generare un'ambiguità costante, per farci dubitare, accusare e poi rimettere in discussione le nostre certezze. Il nostro sguardo si fonde con quello dei personaggi, in un gioco di voyeurismo e identificazione che diventerà il cuore pulsante del suo cinema.
E che sguardo! Hitchcock sperimenta con una libertà e un'audacia visiva sbalorditive per l'epoca. La celeberrima inquadratura del pensionante che cammina nervosamente nella sua stanza al piano di sopra, filmato attraverso un pavimento di vetro, non è un semplice virtuosismo tecnico. È un atto di demiurgia cinematografica. Ci trasforma in ascoltatori-spettatori onniscienti, ci rende complici dell'ansia della famiglia al piano di sotto, che sente i passi ma non può vedere. In quel momento, il cinema cessa di essere una semplice registrazione della realtà per diventare un'esperienza puramente sensoriale e psicologica. È il "cinema puro" che Hitchcock teorizzerà per tutta la vita, dove l'immagine, svincolata dal dialogo, comunica direttamente con l'inconscio dello spettatore.
Ogni oggetto, ogni gesto, è caricato di un potenziale minaccioso. La mano del pensionante che scivola lentamente lungo il corrimano della scala diventa un presagio di morte. L'ombra della traversa di una finestra che si proietta sul volto di Novello lo trasfigura in un martire o in un demone crocefisso. La scacchiera su cui si gioca una partita diventa il campo di battaglia tra logica e istinto, tra il detective che cerca prove concrete e la ragazza che si affida a un'attrazione perturbante. Questo feticismo dell'oggetto, questa capacità di infondere suspense in un attizzatoio o in un bicchiere di latte, è già tutta qui, in nuce.
Ma Il pensionante è anche un'opera profondamente radicata nel suo tempo. La Londra degli anni '20, ancora scossa dal trauma della Grande Guerra, viveva nell'ombra persistente di un altro mito oscuro: Jack lo Squartatore. "Il Vendicatore" ne è il diretto discendente letterario e culturale. Il film cattura magistralmente l'isteria collettiva alimentata dai media nascenti – le notizie urlate dai venditori di giornali, le conversazioni ansiose nei pub, le trasmissioni radiofoniche. C'è una critica sociale sottile ma affilata al modo in cui la paura può trasformare una comunità in una folla inferocita, pronta al linciaggio. La sequenza finale, in cui il pensionante, braccato dalla folla, rimane impigliato con le manette a una cancellata, le braccia allargate in una posa cristologica, è di una potenza visiva sconvolgente. È l'apice del tema dell'innocente perseguitato, un'iconografia del martirio che tornerà, in forme diverse, in tutta la sua filmografia.
Certo, visto con gli occhi di oggi, il finale imposto dalla produzione, con la sua rapida risoluzione e il suo rassicurante abbraccio, può apparire come una concessione. Ma il veleno del dubbio che il film ha inoculato per più di un'ora non svanisce facilmente. L'ambiguità, la tensione erotica e mortifera tra Daisy e il pensionante, il fascino oscuro dell'ignoto, sono questi gli elementi che rimangono impressi nella memoria. Più che un'opera letteraria di Stevenson, come Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, il film sembra quasi anticipare le atmosfere di un romanzo di Patricia Highsmith, dove l'attrazione per il pericolo e l'ambiguità morale del protagonista sono il vero motore della narrazione.
Il pensionante è la Stele di Rosetta della filmografia di Hitchcock. Contiene già, in forma embrionale ma brillantemente definita, quasi tutti i codici del suo linguaggio futuro: la bionda in pericolo, l'uomo comune intrappolato in circostanze straordinarie, il trasferimento di colpa, l'uso simbolico delle scale, il cameo del regista (qui, seduto a una scrivania in una redazione), la fusione di suspense e humor nero. Guardare questo film oggi non è un semplice esercizio di archeologia cinematografica; è assistere alla nascita di una sensibilità, alla definizione di uno sguardo che avrebbe per sempre cambiato il modo di raccontare la paura. È vedere un giovane artista che, avvolto nella nebbia di Londra, ha trovato la luce più abbagliante del cinema.
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