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Il postino suona sempre due volte

1946

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Un rossetto che rotola sul pavimento di una locanda assolata e polverosa. Una gamba scoperta, un turbante bianco, uno sguardo che è insieme una promessa e una condanna. L'apparizione di Lana Turner nei panni di Cora Smith in Il postino suona sempre due volte di Tay Garnett non è una semplice entrata in scena; è una deflagrazione iconografica, il Big Bang della femme fatale nell'immaginario collettivo del dopoguerra. Tutto ciò che il noir aveva sussurrato fino a quel momento, qui viene urlato in un bianco abbagliante, un paradosso cromatico che trasforma la purezza in un presagio di morte. Il film, distillato incandescente del romanzo di James M. Cain, è un trattato sulla fisica dell'attrazione fatale, dove due corpi celesti di bassa estrazione sociale, Frank Chambers (un John Garfield perfetto nella sua arroganza disperata) e Cora, entrano in un'orbita destinata a collassare su se stessa.

La pellicola del 1946 si inserisce in un'America che ha appena riposto l'uniforme nell'armadio ma non sa ancora come gestire i fantasmi e le ansie che la guerra ha lasciato dietro di sé. Frank non è un eroe di guerra, è un vagabondo, un residuo mobile di quella Grande Depressione che aveva sradicato un'intera generazione. Il suo arrivo alla Twin Oaks, la tavola calda gestita dal gioviale e patetico Nick Smith (Cecil Kellaway), è l'incontro casuale che la tragedia greca ha sempre usato come innesco del Fato. Ma qui non ci sono dei sull'Olimpo; gli unici motori sono la lussuria, l'avidità e una disperata, struggente brama di riscatto sociale. La tavola calda, con la sua insegna al neon che promette "Good Food", diventa un microcosmo dell'American Dream pervertito. Non è un luogo da costruire con il duro lavoro, ma un bottino da conquistare con il sangue.

La grandezza del film di Garnett risiede nella sua capacità di navigare le acque infide del Codice Hays, trasformando i limiti in punti di forza. Il romanzo di Cain è una scarica di sesso crudo e violenza spicciola; la sua prosa, secca e brutale come un colpo di pistola, non lasciava spazio all'immaginazione. Il cinema, costretto alla castrazione della censura, è obbligato a sublimare. E in questa sublimazione, trova una potenza erotica forse persino superiore. Ogni sguardo tra Garfield e la Turner è carico di una tensione che la nudità esplicita non potrebbe mai eguagliare. Il loro primo bacio è un atto di violenza, una lotta, una resa. È il cinema che impara a far parlare i corpi, le posture, il sudore sulla fronte, il modo in cui una sigaretta viene passata di bocca in bocca come un sacramento profano. Questo linguaggio del non-detto, del desiderio che freme sotto la superficie della decenza, è il cuore pulsante del noir.

È impossibile non leggere la pellicola in un dialogo meta-testuale con la sua controparte italiana, Ossessione di Luchino Visconti, girato tre anni prima e basato sullo stesso romanzo. Se Visconti, immerso nel nascente neorealismo, usava la vicenda per dipingere un affresco desolato della provincia italiana, un paesaggio dell'anima prima che geografico, Garnett rimane profondamente, inequivocabilmente americano. Il suo non è un film di denuncia sociale, ma un thriller esistenziale. I suoi personaggi non sono vittime di un sistema, ma della propria stessa natura. Frank e Cora sono Adamo ed Eva dopo la Caduta, intrappolati in un Eden di seconda mano fatto di formica e grasso per friggere, e il loro peccato originale non è la disobbedienza a Dio, ma l'obbedienza assoluta al proprio istinto. La loro tragedia non è la povertà, ma l'incapacità di gestire la libertà che il desiderio sembra promettere.

La struttura narrativa è un capolavoro di ironia cosmica, incarnata dal titolo stesso, una metafora che Cain affermava di aver tratto da un'esperienza personale: il postino della vita, del destino, suona una prima volta e forse non lo senti, ma il secondo rintocco è ineluttabile, e porta sempre il conto. Il primo tentativo di omicidio di Nick è un disastro farsesco, quasi da commedia slapstick, con tanto di gatto che manda in cortocircuito l'impianto elettrico. Questo fallimento serve a cullare i personaggi – e lo spettatore – nella falsa illusione che possano controllare gli eventi, che il crimine sia solo una questione di pianificazione. Ma il secondo tentativo, quello che riesce, scatena una reazione a catena che sfugge completamente al loro controllo. L'intervento del procuratore distrettuale Kyle Sackett (un magnifico Hume Cronyn), con la sua logica affilata e la sua retorica manipolatoria, li getta in un gioco più grande di loro, un meccanismo legale che li mastica e li risputa, mettendoli l'uno contro l'altra.

Il vero colpo di genio, tuttavia, è il finale. Dopo essere stati assolti per un omicidio che hanno commesso, il destino si prende la sua rivincita attraverso il più banale degli incidenti. In questo chiasmo esistenziale, la giustizia umana si dimostra cieca e fallibile, mentre una giustizia superiore, impersonale e crudele, ripristina l'ordine. Frank, condannato a morte per un delitto che non ha compiuto – l'omicidio colposo di Cora – accetta finalmente la sua sorte, comprendendo la logica perversa che governa il suo universo. È come se il protagonista di un romanzo di Dostoevskij si ritrovasse catapultato in un racconto di Philip K. Dick, dove la colpa non è un'esperienza interiore, ma una variabile impazzita in un sistema caotico. La confessione finale di Frank al prete non è un atto di pentimento cristiano, ma il riconoscimento di una legge fisica, inesorabile come la gravità: a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, anche se arriva in ritardo e sotto mentite spoglie.

Esteticamente, il film è un esempio perfetto di quello che è stato definito "noir solare". A differenza dei classici del genere, immersi nelle ombre di metropoli notturne e piovose, gran parte dell'azione si svolge sotto la luce accecante della California del Sud. Ma questo sole non porta chiarezza; al contrario, espone la sordida natura dei personaggi in modo spietato, non lasciando angoli bui in cui nascondere i propri desideri. La fotografia di Sidney Wagner usa il bianco e il nero non per creare mistero, ma per scolpire un mondo di contrasti morali assoluti, dove le zone grigie dell'anima vengono illuminate a giorno. Il bianco abbagliante degli abiti di Cora, che la fa sembrare un angelo caduto o una falena attratta dalla fiamma che essa stessa contribuirà ad appiccare, è una delle intuizioni visive più potenti della storia del cinema. Non è il colore dell'innocenza, ma della sua assenza, un vuoto che attira a sé tutta la sporcizia del mondo.

Il postino suona sempre due volte rimane un'opera capitale non solo per la sua perfezione formale o per aver cristallizzato l'archetipo della femme fatale in Lana Turner, ma perché cattura un sentimento profondamente moderno: la consapevolezza che la passione più intensa non è una forza liberatoria, ma la forma più elegante di prigionia. Frank e Cora non riescono a godere del frutto del loro crimine perché, una volta ottenuto ciò che volevano, si rendono conto che l'unica cosa che li teneva insieme era la tensione del desiderio proibito. Liberati dall'ostacolo, si scoprono estranei, pieni di sospetto, legati non dall'amore ma dalla complicità. La loro storia è un monito eterno: a volte, l'oggetto del nostro desiderio è solo uno specchio in cui vediamo riflessa la nostra stessa insoddisfazione. E quando il postino finalmente suona la seconda volta, la lettera che consegna non contiene una soluzione, ma solo il timbro definitivo sulla nostra condanna.

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