Il Processo
1962
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Regista
Un irresistibile viaggio attraverso uno dei romanzi più geniali del nostro tempo, quello che Orson Welles, con la sua inconfondibile audacia visionaria, trasforma in un’allucinazione cinematografica di rara potenza. Non è solo un adattamento, ma una reinvenzione che si cala nell’anima stessa del testo kafkiano, estrapolandone non solo la trama, ma la più profonda risonanza emotiva e filosofica.
Welles si misura con l’archetipo kafkiano del “surreale mistificante” e ne ordisce una visione personale dove la burocrazia insondabile di Kafka, con le sue ramificazioni tentacolari e la sua logica perversa, è sostituita, o meglio, amplificata dall’alienazione soffocante di una nuova civiltà industriale che avanza, una società post-bellica in cui l’individuo è schiacciato da sistemi anonimi e implacabili. La sua macchina da presa non si limita a osservare, ma penetra l’angoscia esistenziale di un mondo in cui la colpa precede l'azione e l'innocenza non è un'assoluzione, bensì un'ulteriore condanna all'incomprensione. È un’opera che parla non solo del totalitarismo, ma della sorda violenza psicologica esercitata dalle strutture del potere moderno, siano esse statali, economiche o sociali.
Un grande Anthony Perkins nel ruolo di K, un impiegatucolo dilaniato dalla morsa di un’oscura e inafferrabile amministrazione. Perkins, reduce dal successo iconico di Psycho, porta in scena una vulnerabilità nervosa e una nevrosi repressa che si sposano perfettamente con l'archetipo dell'uomo comune travolto dall'assurdo. Il suo K non è un eroe tragico, ma una vittima recalcitrante, un Sisifo moderno condannato a spingere un macigno di incertezza e paranoia, la cui dignità si sgretola lentamente sotto il peso di un'accusa senza volto. La sua performance è un tour de force di smarrimento e ribellione impotente, un ritratto indimenticabile di fragilità umana di fronte all'imperscrutabile.
L’uomo viene convocato per un processo ma nonostante i suoi immani sforzi non riuscirà ad essere giudicato né a conoscere le ragioni della convocazione, una spirale di frustrazione che Welles rende tangibile.
Girato in un claustrofobico bianco e nero che restituisce mirabilmente le atmosfere kafkiane, il film è un capolavoro di estetica espressionista. Grande lavoro del direttore della fotografia Edmond Richard che assiste Welles in una sinergia perfetta, trasformando gli spazi in trappole visive e le ombre in presenze minacciose. L'uso virtuosistico della profondità di campo, eredità diretta di Citizen Kane, permette a Welles di orchestrare scenografie labirintiche dove ogni elemento è in focus, contribuendo a un senso di oppressione e di inevitabile destino. Gli ambienti stessi – dalle scale infinite che si perdono nel buio, agli uffici giganteschi e spogli della Gare d'Orsay, che diventa un monumento alla burocrazia asfissiante – diventano personaggi a sé stanti, incarnando la natura onnipresente e disorientante del "Tribunale". Il bianco e nero non è una limitazione, ma una scelta stilistica audace che accentua i contrasti, immergendo lo spettatore in un incubo grafico dove la luce lotta invano contro l'oscurità che avvolge K.
Memorabile in questo senso il grandangolo itinerante con cui Welles ci introduce al massificante ambiente di lavoro di K, il brulicante formicaio in cui un uomo viene annullato con fredda perfezione scientifica. È una sequenza che evoca la disumanizzazione della catena di montaggio, un'eco delle visioni distopiche di Fritz Lang in Metropolis o le satire sul lavoro di Charlie Chaplin in Tempi Moderni, ma con una vena di orrore più sottile e intellettuale. Rimangono a lungo nella memoria anche alcune sequenze come la scena in cui i due funzionari di polizia notificano a K l’atto di comparizione giudiziaria. Qui, lo smarrimento dell’uomo è palpabile, amplificato dalla gratuita prevaricazione che deve subire da parte dei due, dalla loro arroganza burocratica che incarna il volto più insidioso del potere: quello che si esercita senza giustificazione, nella mera routine. La sua ridda di ipotesi sul perché di quella convocazione è il tentativo disperato di un uomo razionale di trovare un senso in un universo che lo ha privato di ogni logica, proiettando sull'indifferenza del sistema le sue stesse ansie e nevrosi. Ogni inquadratura è calibrata per trasmettere la paranoia crescente di K, il suo senso di isolamento totale, il mondo che si restringe intorno a lui come una gabbia. L'eco riverberante delle voci, le figure distorte, la sensazione costante di essere osservati, tutto contribuisce a costruire un'atmosfera di minaccia incombente e di irrealtà.
In definitiva un connubio artistico, quello tra Welles e Kafka, che risulta quantomai indovinato: al cinema soltanto il regista di Kane ha saputo infatti trasporre a pieno il senso ultimo del lavoro di Kafka, la sua più intima grammatica che fa di questo autore un caposaldo della letteratura del novecento. Welles, con la sua predilezione per i personaggi solitari che si scontrano con strutture più grandi di loro (basti pensare a Charles Foster Kane stesso o a Quinlan in L'infernale Quinlan), era l'interprete ideale per cogliere la solitudine esistenziale di K e la natura insondabile della sua battaglia. Il suo cinema, fatto di chiaroscuri morali e psicologici, di architetture imponenti e di sguardi penetranti, si è rivelato il linguaggio perfetto per tradurre la prosa labirintica e l'angoscia metafisica di Kafka in immagini. "Il Processo" di Welles non è solo un film, ma un'esperienza immersiva nella paranoia e nell'assurdo, un monito inquietante sulla fragilità della libertà individuale di fronte a un sistema che giudica senza spiegare, e condanna senza mai rivelare la propria faccia. Un'opera senza tempo, che continua a risuonare potentemente nelle complessità del nostro presente.
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