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Il regno d'inverno - Winter Sleep

2014

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Un paesaggio d'Anatolia scolpito dal vento e dal tempo, dove le case-caverna della Cappadocia sembrano i resti fossili di una civiltà antichissima o, forse, le cavità orbitali di un teschio titanico. Dentro una di queste, l'Hotel Othello, si consuma un letargo dell'anima che Nuri Bilge Ceylan orchestra con la precisione di un maestro di scacchi e la pazienza di un geologo. Il regno d'inverno - Winter Sleep non è un film, è una condizione esistenziale, una discesa in un labirinto di parole dove ogni corridoio è un'auto-giustificazione e ogni stanza una prigione di risentimento. Un'opera che si insinua sotto la pelle come il freddo di quelle steppe, e vi resta, a lungo, dopo che la neve si è sciolta.

Al centro di questo microcosmo c'è Aydın (un monumentale Haluk Bilginer), ex attore teatrale ritiratosi a gestire l'albergo di famiglia, un piccolo feudo ereditato dal padre. Aydın è l'archetipo dell'intellettuale borghese, un uomo convinto della propria superiorità morale e culturale, che pontifica dalle colonne di un giornale locale ("La Voce della Steppa") e progetta da anni un'enciclopedica "Storia del Teatro Turco" che non vedrà mai la luce. È un sovrano nel suo regno di pietra e silenzio, un Prospero senza magia la cui isola è assediata non da mostri, ma dalla prosaica realtà dei suoi affetti: la giovane e infelice moglie Nihal (Melisa Sözen), consumata dalla noia e da un frustrato anelito di carità, e la sorella Necla (Demet Akbağ), divorziata e acida, la cui lingua è un bisturi che non sbaglia mai un'incisione.

La struttura narrativa è un deliberato, quasi sfrontato, omaggio a Čechov. Ceylan, partendo da due racconti brevi dello scrittore russo ("La moglie" e "Gente eccellente"), ne espande i nuclei tematici fino a trasformarli in una sinfonia da camera di oltre tre ore. Come nei drammi cechoviani, l'azione è quasi inesistente, sublimata in un torrente di dialoghi che sono vere e proprie dissezioni verbali. Ogni conversazione è un duello, un'arringa, una confessione mancata. I personaggi non parlano per comunicare, ma per definire il proprio territorio, per ferire con precisione chirurgica, per costruire fortezze di parole dietro cui nascondere la propria vulnerabilità. Aydın crede nel potere della ragione e della logica, ma le sue argomentazioni sono solo armi per schiacciare chiunque metta in discussione il suo fragile edificio di autostima. È un uomo che ha letto Dostoevskij ma si comporta come un personaggio minore di un dramma di Ibsen, intrappolato nel ruolo che si è scritto.

La grandezza di Ceylan, e il motivo per cui Winter Sleep trascende il mero esercizio di stile letterario, risiede nella sua impareggiabile capacità di tradurre questo teatro della parola in purissimo linguaggio cinematografico. La sua formazione da fotografo emerge in ogni inquadratura. Gli interni dell'hotel, illuminati da fuochi scoppiettanti e luci calde che ricordano la pittura di Vermeer o Georges de La Tour, sono claustrofobici, opprimenti. Le pareti di roccia nuda sembrano assorbire le voci e le emozioni, rendendo l'aria densa, irrespirabile. In contrasto, gli esterni sono vasti, desolati, spazzati da un vento implacabile e coperti da una neve che non purifica, ma anestetizza, seppellendo ogni cosa sotto un manto di uniformità bianca. È un paesaggio dell'anima che evoca l'incomunicabilità di Antonioni, dove la vastità dello spazio fisico accentua il vuoto interiore dei personaggi.

Le due sequenze di dialogo che costituiscono il cuore pulsante del film sono lezioni di cinema e di scrittura. La prima, tra Aydın e la sorella Necla, è un capolavoro di crudeltà intellettuale, un crescendo di accuse e recriminazioni che smonta pezzo per pezzo la presunzione del protagonista, la sua ipocrisia mascherata da saggezza. La seconda, ancora più devastante, è il confronto tra Aydın e la moglie Nihal. Dura quasi mezz'ora, ma ha la tensione di un thriller psicologico. È una scena che fa pensare alle estenuanti battaglie coniugali di Scene da un matrimonio di Bergman, ma con un veleno ancora più sottile. Qui, il tema della carità diventa il campo di battaglia: il progetto di beneficenza di Nihal è, per lei, un tentativo disperato di dare un senso alla propria esistenza; per Aydın, è un fastidioso e ingenuo passatempo che minaccia il suo controllo. La scena in cui lui le consegna una grossa somma di denaro non è un atto di generosità, ma un gesto di potere, un modo per comprare il suo silenzio e la sua sottomissione. È la quintessenza della violenza psicologica, perpetrata non con urla, ma con sorrisi condiscendenti e una logica schiacciante.

Ma Winter Sleep non è solo un dramma familiare. È anche un'acuta, seppur obliqua, riflessione sulla Turchia contemporanea e sulle sue insanabili fratture. Il conflitto tra Aydın, l'intellettuale laico di stampo occidentale, e la famiglia del suo inquilino, l'imam Hamdi, povero, orgoglioso e profondamente religioso, è una metafora potente. L'incidente scatenante – il figlio piccolo di Hamdi che lancia un sasso contro il fuoristrada di Aydın – è la scintilla che rivela un abisso di classe, cultura e valori. L'umiliazione subita dall'imam, costretto a baciare la mano di Aydın in segno di sottomissione, e il successivo, catastrofico tentativo di Nihal di "riparare" con il denaro, espongono l'impossibilità di un dialogo autentico tra questi due mondi. Ceylan non giudica, non prende le parti di nessuno. Mostra con spietata lucidità come la "coscienza sporca" del ricco e l'orgoglio ferito del povero creino un cortocircuito morale da cui nessuno esce indenne.

La durata del film, che ha scoraggiato molti, è in realtà la sua arma segreta. Ceylan utilizza il tempo come uno scultore, per erodere lentamente le maschere dei suoi personaggi. Lo spettatore non osserva una crisi, la vive. Sente il peso delle ore vuote, l'asfissia spirituale di una vita senza scopo. È un cinema che richiede abbandono e immersione, che ricompensa la pazienza con una profondità psicologica rara. Il ritmo è quello della vita stessa, con le sue lunghe stasi e le sue improvvise, dolorose accelerazioni.

Vincitore della Palma d'Oro a Cannes nel 2014, Winter Sleep è un'opera monumentale, un film che si installa nella memoria come un classico istantaneo. È un saggio filosofico travestito da dramma, una meditazione sul male banale della presunzione intellettuale, sulla solitudine che si cela dietro l'arroganza e sulla disperata ricerca di significato in un mondo che sembra averne perso ogni traccia. Nel finale, dopo una fuga illusoria verso Istanbul, Aydın torna al suo regno di pietra. Si siede alla scrivania e, forse per la prima volta, inizia a scrivere non per ammaestrare il mondo, ma per tentare di capire se stesso. La neve continua a cadere, silenziosa e indifferente. Il letargo non è finito, ma forse, in quella resa, si nasconde il primo, timidissimo germoglio di una consapevolezza. Un capolavoro assoluto, la cui eco risuona nel rumore assordante delle anime in trappola.

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