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Il romanzo di Mildred

1945

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Un delitto. Un molo avvolto nella nebbia salina del Pacifico. Un uomo crivellato di colpi che crolla a terra, rantolando il nome di una donna. “Mildred”. Con questo prologo folgorante, degno dell’incipit di un hardboiled di Dashiell Hammett, Michael Curtiz ci trascina nell’oscurità. Eppure, l’assassino che cerchiamo non si nasconde nei vicoli malfamati di una metropoli corrotta, ma nelle immacolate cucine di una casa suburbana e nelle sale scintillanti di un ristorante di lusso. Il romanzo di Mildred (Mildred Pierce, 1945) non è semplicemente un film noir; è un’autopsia dell’American Dream condotta sul tavolo operatorio del melodramma familiare, un ibrido genetico di una potenza quasi mostruosa. È un "woman's picture" che indossa l’impermeabile e il cappello di un P.I., con le ombre espressioniste che non proiettano la minaccia di un gangster, ma il profilo chthonic e divorante dell’amore materno.

La Warner Bros. affidò il romanzo di James M. Cain a Curtiz, l’ungherese che poteva dirigere qualsiasi cosa – da un cappa e spada con Errol Flynn a un dramma di guerra immortale come Casablanca – con la stessa implacabile efficienza. E Curtiz, da maestro artigiano qual era, comprese che l’orrore nel mondo di Cain non nasce dalla pistola fumante, ma dalla lenta corrosione dell’anima. La struttura narrativa, un lungo, sinuoso flashback incastonato nella cornice di un’indagine di polizia, è un trucco da noir classico, ma qui serve a uno scopo più profondo. Non si tratta di scoprire chi ha ucciso Monte Beragon, ma di capire perché Mildred si trovi in quella stazione di polizia, con lo sguardo perso e una pelliccia di visone che sembra più una corazza che un simbolo di status. La vera eziologia del crimine non risiede nella notte dell’omicidio, ma in anni di torte sfornate, di sacrifici silenziosi e di un’ambizione che si fa cancro.

Al centro di tutto, ovviamente, c’è Lei: Joan Crawford. Un’icona in declino, licenziata dalla MGM perché considerata "veleno per il botteghino", che vide in Mildred Pierce non un ruolo, ma una resurrezione. E la sua performance è una fusione quasi alchemica tra attrice e personaggio. Mildred non è solo una madre disposta a tutto; è la personificazione di una volontà di sopravvivenza che sconfina nella hybris. Crawford le presta le sue celebri spalle larghe, che qui diventano il simbolo visivo di un fardello esistenziale, e uno sguardo che può passare dalla determinazione adamantina alla più disperata vulnerabilità in un batter di ciglia. Quando la vediamo, all’inizio, trasformarsi da casalinga abbandonata in cameriera, e poi in imprenditrice di successo, non assistiamo solo a una scalata sociale. Assistiamo a una metamorfosi che ha del faustiano. Mildred vende la sua anima non al diavolo, ma a un demone ben più insidioso: la sua stessa figlia, Veda.

E Veda, interpretata da una diabolica Ann Blyth, è una delle creazioni più terrificanti della storia del cinema. Non è una semplice adolescente viziata; è un vuoto pneumatico di gratitudine, un simulacro sociopatico di raffinatezza e aspirazione sociale. Veda è il vero mostro del film, una femme fatale in abiti da collegiale che non usa una pistola, ma il disprezzo. È il prodotto tossico del sogno americano di Mildred, l'incarnazione di tutto ciò per cui la madre ha lottato, ma epurato da ogni traccia di umanità e di lavoro. Il loro rapporto è il cuore nero del film, una dinamica che va oltre il semplice conflitto generazionale per approdare alle sponde della tragedia greca. Mildred, come una moderna Medea al contrario, sacrifica tutto non per vendetta, ma per un amore che è, in essenza, una forma di auto-annientamento. Ogni torta che inforna, ogni ristorante che apre, è un mattone per costruire un altare su cui immolare se stessa per il compiacimento di una divinità crudele e indifferente.

Questa dinamica perversa si allontana dalla prosa secca e naturalista di Cain per avvicinarsi a certi abissi psicologici che sembrano prelevati da un romanzo di Henry James, se James avesse scritto di cameriere a Glendale invece che di ereditiere a Washington Square. La lotta di classe è il campo di battaglia. Mildred vuole dare a Veda tutto ciò che lei non ha mai avuto, ma Veda non vuole solo i soldi; vuole lo status, il lignaggio, l'aura di vecchia ricchezza che un uomo come il parassitario e affascinante Monte Beragon (un superbo Zachary Scott) possiede per diritto di nascita. Mildred può comprare Monte, può acquistare il suo mondo, ma non potrà mai appartenergli veramente. E Veda, con l'istinto infallibile di un predatore, lo capisce. Il suo disprezzo per la madre è, in fondo, un disprezzo per le sue origini, per l'odore di grasso e farina che, secondo lei, non andrà mai via.

Visivamente, Curtiz e il direttore della fotografia Ernest Haller traducono questo dramma interiore in un linguaggio espressionista. La casa di Mildred, simbolo del suo successo, è spesso un labirinto di ombre minacciose. Le scale diventano arene di confronto psicologico, le porte incorniciano figure isolate dal loro ambiente. La luce non illumina, ma seziona, scolpisce i volti, rivela le crepe nelle maschere sociali. Il mondo di Mildred Pierce è un mondo di superfici scintillanti – i pavimenti lucidi, i banconi cromati, gli abiti eleganti – sotto cui brulica il marciume della menzogna e del risentimento. È un’estetica che eleva un dramma potenzialmente dozzinale a saggio filosofico sulla vacuità del materialismo.

Intorno a Mildred orbita un sistema solare di personaggi maschili e femminili che definiscono le coordinate morali del suo universo. C'è Wally Fay (Jack Carson), l'agente immobiliare viscido ma in fondo patetico, l'epitome del capitalismo opportunista e senza fronzoli. C'è Bert, il primo marito, un uomo sconfitto dalla vita che rappresenta un passato di rispettabilità borghese ormai irraggiungibile. E poi c'è Ida Corwin, interpretata da una Eve Arden la cui lingua è più affilata di un coltello da macellaio. Ida è la voce della ragione, il coro greco cinico e disincantato che commenta la discesa agli inferi dell'amica con battute fulminanti che sono, in realtà, avvertimenti tragici. È l'unica a vedere la verità, a capire che la devozione di Mildred non è una virtù, ma una patologia.

Il film, uscito all'indomani della Seconda Guerra Mondiale, intercettò un'ansia culturale profonda. Le donne, le "Rosie the Riveter", avevano assaggiato l'indipendenza economica durante il conflitto e ora la società si interrogava sul loro ruolo nel mondo che tornava alla normalità. Mildred Pierce è una figura potentemente ambivalente in questo contesto: un'eroina dell'autodeterminazione femminile che usa la sua intelligenza e il suo acume per gli affari per costruire un impero dal nulla, ma che rimane irrimediabilmente intrappolata nelle catene del suo ruolo materno, tradizionale e distruttivo. Il suo successo professionale non la libera; al contrario, le fornisce solo armi più sofisticate per la sua guerra personale, una guerra che è destinata a perdere fin dall'inizio.

Il romanzo di Mildred resta un'opera capitale non solo per la sua perfetta fusione di generi o per la performance che ha ridefinito una carriera, ma per la sua spietata onestà. Ci dice che il Sogno Americano può essere la più crudele delle trappole, una promessa di felicità che si rivela essere un meccanismo per alimentare i nostri peggiori istinti. Ci mostra che l'amore, quando diventa ossessione, non redime, ma divora. E alla fine, quando Mildred e il suo primo marito si allontanano nella luce grigia dell'alba, liberi dall'incubo di Veda ma svuotati di tutto, non proviamo un senso di giustizia compiuta. Proviamo solo il freddo di una verità desolante: a volte, l'unico modo per sopravvivere è lasciar morire una parte di sé. La parte che sognava.

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