Il sale della terra
2014
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Un fantasma infesta il cinema americano. Non è lo spettro di un genere o di una star dimenticata, ma la pellicola stessa, un oggetto fisico che è quasi un'impossibilità ontologica, un samizdat partorito nel cuore dell'Impero durante la sua più gelida paranoia. Guardare oggi Il sale della terra significa compiere un atto di archeologia cinematografica, dissotterrando non tanto un film, quanto la cicatrice che la sua creazione e la sua successiva cancellazione hanno lasciato sulla coscienza culturale di una nazione. La sua odissea produttiva, un vero e proprio romanzo picaresco intriso di sorveglianza dell'FBI, sabotaggi e ostracismo, è talmente inscindibile dal prodotto finale da costituire un ipertesto che ne amplifica ogni fotogramma. Herbert J. Biberman, uno dei "Dieci di Hollywood" epurati dalla caccia alle streghe maccartista, non si limita a dirigere un film; orchestra un atto di insubordinazione estetica e politica, il cui valore trascende la narrazione per farsi testimonianza.
Il paradosso fondante de Il sale della terra è che, pur essendo l'antitesi per eccellenza del sistema hollywoodiano, ne rappresenta la più pura e disperata incarnazione del sogno neorealista. Se il cinema di De Sica e Rossellini nasceva dalle macerie fisiche ed etiche della Seconda Guerra Mondiale, quello di Biberman sorge dalle macerie ideologiche della Guerra Fredda. È un Neorealismo traslato, spurio, geneticamente modificato dal contesto americano, ma animato dalla stessa, identica urgenza: pedinare la realtà, usare i volti e i corpi di chi la vive – in questo caso, i veri minatori messicani-americani dello sciopero della Empire Zinc in Nuovo Messico – e abolire la distanza tra rappresentazione e vita. La polvere che si posa sui mobili della casa di Ramon ed Esperanza non è cenere di scena cosparsa da un attrezzista, è la polvere del deserto del Nuovo Messico. La stanchezza sui volti non è il frutto di un'immedesimazione attoriale secondo il Metodo, ma la fatica autentica di chi ha lavorato in miniera o su un picchetto.
Questa scelta non è un vezzo autoriale, ma una necessità che si fa virtù stilistica. In un'epoca in cui Hollywood magnificava il Technicolor e il CinemaScope, Biberman opta per un bianco e nero aspro, quasi documentaristico, che non ha nulla della levigata eleganza del noir coevo. La sua fotografia è funzionale, priva di compiacimenti estetici, quasi a dire che la bellezza deve emergere dalla verità della situazione, non dalla composizione dell'inquadratura. C'è un'onestà brutale in questo approccio che ricorda non solo Ladri di biciclette, con cui condivide il focus sulla disperazione economica che erode la dignità maschile, ma anche le fotografie della Farm Security Administration di Walker Evans o Dorothea Lange. Come quegli scatti, il film di Biberman congela un momento di crisi sociale, conferendo ai suoi soggetti un'iconicità quasi mitologica, una monumentalità che li eleva da semplici vittime a simboli di una lotta universale.
Tuttavia, ridurre Il sale della terra a un mero calco americano del Neorealismo o a un epigono del realismo sociale di Steinbeck (il cui eco, specialmente quello di Furore, è assordante) sarebbe un errore critico. Il film compie uno scarto di una modernità sbalorditiva, anticipando di decenni dibattiti che sarebbero diventati centrali. La sua vera, dirompente genialità risiede nel mostrare come le lotte non siano mai monolitiche. La narrazione, infatti, si biforca. Da un lato, c'è il classico conflitto operaio: il sindacato contro la compagnia, il lavoro contro il capitale. Ma parallelamente, e con forza crescente, emerge un secondo fronte, interno, intimo: la lotta delle donne per la propria emancipazione all'interno della stessa comunità maschile e patriarcale che sta combattendo per i propri diritti.
È qui che il film trascende il suo genere e diventa qualcosa di unico. La sceneggiatura di Michael Wilson (altro nome sulla lista nera, che avrebbe poi vinto un Oscar sotto pseudonimo per Il ponte sul fiume Kwai) orchestra una dialettica straordinaria. Quando l'ingiunzione del tribunale vieta ai minatori di picchettare, sono le donne a prendere il loro posto. Questo rovesciamento di ruoli non è solo un brillante espediente narrativo; è il catalizzatore di una rivoluzione copernicana all'interno della famiglia e della comunità. La protagonista, Esperanza Quintero (interpretata dalla magnifica e sfortunata Rosaura Revueltas, unica attrice professionista del cast principale, la cui carriera fu distrutta proprio per questo ruolo), compie un arco di trasformazione che è tra i più potenti della storia del cinema. La vediamo evolvere da appendice silente del patriarcato, il cui unico desiderio è un po' d'acqua corrente, a motore pensante e agente della Storia.
Il confronto tra lei e suo marito Ramon è il cuore pulsante del film. Biberman non santifica i suoi protagonisti; Ramon è un eroe della lotta di classe, ma anche un marito sciovinista, incapace di accettare che sua moglie abbia una voce, un pensiero, un ruolo al di fuori delle mura domestiche. Le loro discussioni non sono semplici litigi coniugali, ma veri e propri dibattiti filosofici sulla natura dell'uguaglianza. "Volete stare sopra di noi", accusa lui. "No, vogliamo stare al vostro fianco", risponde lei. In questa frase risiede l'anima del film, la sua intuizione profetica su quella che oggi chiameremmo intersezionalità: la consapevolezza che la lotta di classe, la lotta razziale (la discriminazione verso i "messicani") e la lotta di genere sono fili inestricabilmente intrecciati dello stesso arazzo. Non si può pretendere dignità dal padrone se non si è disposti a concederla alla propria compagna.
Questa struttura tematica complessa trova un correlativo oggettivo visivo potentissimo. La richiesta iniziale delle donne non è ideologica, ma pragmatica: migliori condizioni sanitarie, acqua calda corrente. Un'esigenza legata alla sfera domestica, al corpo, alla riproduzione della vita quotidiana. Ma il film ci mostra come questa richiesta "minore" sia in realtà il fondamento di ogni altra rivendicazione di dignità. Il politico nasce dal privato, la grande Storia sgorga dal rubinetto di una cucina. In questo, Il sale della terra si spinge ben oltre i suoi modelli, che fossero le epopee proletarie del cinema sovietico o il dramma della povertà neorealista. È un'opera che dialoga idealmente più con un futuro cinema femminista à la Chantal Akerman che con i suoi contemporanei.
L'esistenza stessa di questo film è un miracolo, un messaggio in una bottiglia lanciato da un'isola di dissidenti. La sua distribuzione fu boicottata, le copie distrutte, i suoi creatori perseguitati. Per decenni, è rimasto un oggetto quasi clandestino, visibile solo in circuiti ristretti, sindacali o universitari. Questa condizione di "film maledetto" ne ha certamente alimentato il mito, ma rischia di oscurarne la grandezza puramente cinematografica. Al di là della sua importanza storica e politica, Il sale della terra è un'opera di una coerenza stilistica e di una densità tematica formidabili. È un film che, nel raccontare una piccola lotta in un angolo remoto d'America, riesce a parlare di tutte le lotte. È un fossile vivente che ci mostra non solo un'epoca di repressione, ma anche un momento irripetibile in cui il cinema ha avuto la folle, meravigliosa ambizione di poter essere non solo lo specchio del mondo, ma anche il martello con cui forgiarlo. E in questa ambizione, tragica e sublime, risiede la sua incrollabile, necessaria presenza nel canone.
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