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Il segreto dei suoi occhi

2009

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Un romanzo non è altro che un tentativo di imporre un ordine, una sintassi narrativa, al caos informe del passato. È un’archeologia dell'anima, dove lo scrittore scava tra i detriti della memoria alla ricerca di una reliquia, un frammento di senso che possa giustificare il presente. Questa è la premessa, quasi proustiana nella sua essenza, che muove Benjamín Espósito, il protagonista dolente e crepuscolare de Il segreto dei suoi occhi di Juan José Campanella. Ma il film, ben più di un semplice racconto sulla genesi di un libro, si rivela un labirinto borgesiano in cui ogni corridoio della memoria conduce a una stanza chiusa, a una verità più terribile di quella che si era partiti a cercare.

Sulla carta, la pellicola argentina, vincitrice dell'Oscar al miglior film straniero nel 2010, si presenta come un thriller investigativo con venature romantiche. Ma etichettarlo in questo modo sarebbe come descrivere Moby Dick come un manuale di caccia alla balena. Campanella orchestra una sinfonia polifonica che intreccia il neo-noir, il dramma giudiziario, la cronaca storica e una struggente storia d'amore mancata. Il film danza costantemente su due linee temporali, il 1999 e il 1974, non come mero espediente narrativo, ma per dimostrare una tesi faulkneriana: il passato non è mai morto, non è nemmeno passato. Le due epoche non sono separate; quella del '74, calda, satura, febbrile, sanguina costantemente in quella del '99, fredda, desaturata, spettrale. Il presente di Espósito non è che la camera dell'eco del suo ieri.

Il motore della narrazione è un omicidio brutale, il caso Morales, un "cold case" che ha segnato a fuoco la vita di Espósito, allora funzionario di un tribunale di Buenos Aires. Venticinque anni dopo, in pensione, decide di esorcizzare quel fantasma scrivendoci un romanzo. Questo dispositivo metanarrativo – il film che seguiamo è, in un certo senso, il romanzo che Espósito sta tentando di scrivere – permette a Campanella di esplorare la natura stessa del ricordo: un atto non di recupero, ma di continua, fallibile, riscrittura. Espósito non vuole solo ricordare; vuole capire, e capire significa dare una forma, trovare un colpevole non solo per l'omicidio, ma per il fallimento della propria vita.

L’architrave emotiva del film poggia su tre relazioni magistralmente delineate. La prima è quella tra Benjamín (un Ricardo Darín monumentale nella sua capacità di comunicare decenni di rimpianti con un solo sguardo) e Irene Menéndez Hastings (una Soledad Villamil perfetta nel suo misto di algida professionalità e vulnerabilità repressa). Il loro è un amore sospeso, non detto, fatto di sguardi, di silenzi carichi di elettricità, di porte che si chiudono un attimo troppo presto. È un amore che vive nella grammatica del condizionale, un'ossessione romantica che congela Espósito nel tempo, rendendolo incapace di andare avanti. Il loro legame è una versione giudiziaria del Breve incontro di David Lean, dilatato su un quarto di secolo e incastonato nella cornice di una nazione che sta per sprofondare nel suo abisso.

La seconda è l’amicizia virile e tragica con Pablo Sandoval, interpretato da un Guillermo Francella che compie un miracolo di trasformazione. Sandoval è il classico aiutante geniale e autodistruttivo, un Falstaff alcolizzato la cui mente, nei rari momenti di lucidità, brilla di un'intuizione quasi soprannaturale. È lui a decifrare il "segreto" del titolo: la passione, l'ossessione, non si può nascondere, trapela dagli occhi. La sua teoria, che permette di identificare l'assassino studiando le vecchie fotografie, è un manifesto del cinema stesso: l'immagine che rivela la verità nascosta dietro la superficie del reale. La sua fine è una tragedia greca in miniatura, un sacrificio che sigilla il fallimento del sistema e l'impotenza dei giusti.

Infine, c'è il rapporto a distanza tra Espósito e Ricardo Morales (Pablo Rago), il marito della vittima. Morales è lo specchio oscuro di Benjamín. Se l'ossessione di Espósito è un'elegia passiva per un amore mai vissuto, quella di Morales è un'agghiacciante, attiva devozione alla memoria della moglie, un amore che si trasforma in una forma di giustizia privata, primordiale e terrificante. È un personaggio che sembra uscito da un romanzo di Dostoevskij, un uomo comune spinto ai confini della moralità dal crollo di ogni altra forma di ordine.

Campanella non si limita a raccontare una storia, ma riflette sul modo in cui la si racconta. La sequenza della cattura dell'assassino allo stadio di calcio è un pezzo di bravura tecnica che meriterebbe di essere studiato in ogni scuola di cinema. Un piano sequenza vertiginoso, che parte da una visione aerea per poi precipitare in mezzo alla folla urlante, inseguendo un uomo tra migliaia, è la metafora perfetta della ricerca stessa della giustizia: un tentativo disperato di isolare una singola colpa nel caos assordante della società. È un momento di cinema puro che evoca la perizia tecnica di un Brian De Palma o di un Orson Welles, ma lo fa con una finalità tematica precisa: il disordine dello stadio è il disordine della nazione.

Qui si innesta il contesto storico, il vero "fuoricampo" che determina il destino di tutti. Il film è ambientato alla vigilia della "Guerra Sporca" argentina. La liberazione dell'assassino, Isidoro Gómez, non è un semplice caso di corruzione, ma un sintomo della metastasi che sta divorando lo Stato. Il sistema giudiziario, marcio e impotente, non solo non punisce i colpevoli, ma li assolda, trasformando i criminali comuni in bracci armati di un potere oscuro e para-statale. Campanella, con intelligenza e senza didascalismi, mostra come la tragedia privata della famiglia Morales venga inghiottita e pervertita dalla tragedia pubblica di un'intera nazione. L'impunità di Gómez non è un'eccezione, è la regola che sta per affermarsi. L'atmosfera di paura, di paranoia, di impotenza che pervade la seconda metà del film è il riflesso di un paese sull'orlo del baratro, dove la giustizia è diventata una parola vuota.

E quando la giustizia istituzionale abdica, cosa resta? Questa è la domanda che il film pone nel suo finale raggelante. La rivelazione ultima, che riscrive il significato della parola "ergastolo" (cadena perpetua), è una delle più potenti e disturbanti della storia del cinema moderno. Non è un colpo di scena fine a se stesso, ma la chiusura del cerchio tematico. È la discesa finale nell'abisso di un'ossessione che si è fatta prigione, un'immagine che ricorda "La botte di Amontillado" di Poe calata nella desolazione della pampa argentina. Non c'è catarsi, non c'è liberazione. C'è solo la constatazione che certe ferite non si rimarginano e che la giustizia, quando è esercitata dall'uomo sull'uomo al di fuori di ogni legge, assume le forme della più crudele delle mostruosità.

Il segreto dei suoi occhi è un capolavoro perché riesce a essere universale pur essendo profondamente, visceralmente argentino. Parla di amore, perdita, memoria e giustizia, temi che trascendono ogni confine, ma lo fa attraverso le cicatrici di una storia nazionale specifica. È un film che si installa sotto la pelle dello spettatore, lasciandolo con un senso di vertigine e una domanda ineludibile: per quanto tempo possiamo fissare il passato, prima che il passato inizi a fissare noi, rivelandoci un segreto che avremmo preferito non conoscere? La porta che si apre nell'ultima inquadratura non è una promessa di futuro, ma l'accesso a un presente eternamente infestato. È la condanna definitiva a non poter mai, veramente, voltare pagina.

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