Il Settimo Sigillo
1957
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Regista
Un cavaliere rientra sfinito dalle Crociate quando incrocia la Morte. Per sfuggire al suo abbraccio la sfida ad una partita a scacchi. Inizia così un’avvincente braccio di ferro psicologico tra uomo e spirito immortale, un dualismo in cui i due contendenti lottano disperatamente alla pari per tentare di sopravanzare l’avversario. Questa partita a scacchi, ben più che un mero stratagemma narrativo, si erge a simbolo di un’epoca tormentata, quella della Morte Nera che decima l’Europa medievale, ma anche, in un’eco intemporale, della crisi esistenziale che attanaglia l’uomo moderno. Bergman non si limita a dipingere un affresco storico; egli sonda l'abisso del dubbio, l'angoscia di un'esistenza priva di risposte divine, un tema che risuona con forza nel dopoguerra europeo e nelle correnti filosofiche esistenzialiste di Camus e Sartre. Il film diventa così una meditazione sull'assurdo, sulla futilità della ricerca di senso in un universo apparentemente indifferente.
Questo è il folgorante plot di uno dei film più belli e affascinanti mai girati da essere umano. Ingmar Bergman davvero sublime nell’arte di rendere visivamente il pathos del dualismo tra i due contendenti, di una battaglia silenziosa combattuta nelle menti e nell’anima tormentata del Cavaliere. La sua macchina da presa, coadiuvata dalla fotografia di Gunnar Fischer, trasforma ogni inquadratura in un’incisione rupestre, scolpita nel bianco e nero più netto, dove le ombre sono tanto protagoniste quanto le figure umane. Il volto di Max von Sydow, scarnificato dal tormento e dalla ricerca di un Dio silente, si contrappone alla figura ieratica e immobile della Morte, quasi una rappresentazione allegorica vivente, radicata nella tradizione delle Danze Macabre medievali, ma investita di una nuova, terrificante, vicinanza. Le immagini iconiche – il cavaliere che gioca a scacchi sulla spiaggia, la processione dei flagellanti, la celebre danza finale – non sono solo esteticamente potenti, ma agiscono come archetipi visivi, cristallizzando concetti complessi in forme immediatamente riconoscibili, capaci di parlare a strati profondi della nostra psiche collettiva.
Le varianti di ogni mossa vengono analizzate in un flusso psicologico nascosto eppure riverberato nella narrazione, come in ogni titanica sfida scacchistica il fulcro del conflitto si cela nei recessi delle menti dei contendenti, ed è proprio lì che Bergman lo intercetta e ce lo fa balenare. Non è solo la partita a tenere il Cavaliere Blokk in bilico, ma la sua inesausta e vana ricerca di un segno, di una prova dell'esistenza di Dio, un tema che Bergman riprenderà con ancor più desolante intensità in opere successive come Luci d'inverno e Persona. Accanto a Blokk, il suo scudiero Jöns, un cinico pragmatico, funge da contraltare razionale, il coro sardonico che commenta la vanità delle imprese umane e l'ipocrisia religiosa. Questa dicotomia tra fede tormentata e scetticismo disincantato è un motore pulsante della narrazione, che si arricchisce ulteriormente con l'introduzione della famiglia di girovaghi – Jof, Mia e il loro bambino – incarnazione di una purezza e una gioia semplice e indomita, quasi un'alternativa laica e terrena alla salvezza spirituale. La loro innocenza, la loro capacità di trovare bellezza e significato nella quotidianità, contrasta in modo struggente con l'angoscia intellettuale del Cavaliere, suggerendo che forse la risposta non risiede nelle grandi questioni metafisiche, ma nella tangibile, fragile meraviglia del vivere.
Come un trattato filosofico reso per immagini e parole si ha quasi l’impressione di poter toccare con mano il flusso dei pensieri, il punto segreto del contendere, la sovranità degli spazi in lotta per il predominio. Il Settimo Sigillo trascende la mera rappresentazione filmica per farsi esperienza intellettuale e spirituale, un'indagine quasi teologica sulla condizione umana. La celebre scena della confessione di Blokk al prete, che si rivela essere la Morte stessa, è un vertice di questa disperata ricerca di conoscenza, un momento in cui l'uomo tenta di strappare un frammento di verità all'ineffabile, solo per scoprire il vuoto o l'inganno. Bergman, egli stesso alle prese con le proprie crisi di fede durante la produzione – si dice che il film sia nato da un suo personale dramma e da una malattia che lo portò a riflettere sulla morte – infonde ogni fotogramma di una profonda autenticità esistenziale. Il set, spesso scarno e volutamente stilizzato, serve a focalizzare l'attenzione sull'essenza del dramma, sulle espressioni dei volti, sui gesti che rivelano mondi interiori.
L'impatto de Il Settimo Sigillo sul cinema mondiale è stato colossale, influenzando generazioni di registi con la sua audacia tematica e la sua potenza visiva. Ha aperto la strada a un cinema più introspettivo e filosofico, dimostrando che l'arte cinematografica poteva affrontare le domande più grandi dell'umanità senza sacrificare l'accessibilità o il fascino. È un'opera che, a dispetto della sua apparente cupezza, celebra anche la resilienza dello spirito umano e la fuggevole bellezza della vita. La danza finale con la Morte, una processione di anime verso l'ignoto, è un'immagine tanto sinistra quanto liberatoria, un eterno ricordo della caducità ma anche della condivisione del destino umano.
Un’opera maestosa e nascosta, come un immenso diamante platonico sul fondo degli abissi, il cui splendore si rivela a chi ha il coraggio di immergersi nelle sue profondità.
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